My status quaestionis 2010

Dal tempo al tempo

Ciò che passa, ciò che resta.
Un Amore bambino che non smette di esistere, anche se nudo, all’addiaccio di un genere umano che tanto l’agogna quanto meno lo riconosce.
L’amore per la scrittura gli assomiglia, scavante com’è motivi e vuoti di senso, cercando una genealogia a crescite interiori che abbiano “il coraggio della proiezione nel futuro, del confronto con l’altro”, anche quando questo altro è il se stesso di prima, un tempo neanche troppo lontano, ma meno propenso di oggi a dedicarsi a scandagliare l’immensa, e avvincente, gamma di grigi dell’esistenza.
Claudio Sottocornola (filosofo, teologo, poeta?) prosegue il suo cammino di ricerca elaborando un linguaggio di sintesi che consenta di superare la rigida posizione delle definizioni, di chi si riferisce credente, o anche ateo (credente del non credo), o comunque definito, in un mondo che nel suo continuo incedere rivede in continuazione se stesso.
>Quindi anche le definizioni. È caratteristica saliente dell’esistenza porre l’essere-non essere, sempre, nella discussione e nel confronto che sia in grado di confermare le credenze. Pertanto, restare fermi senza quesiti su se stessi e in se stessi ha la pericolosità della presunzione.
Caratteristica, o difetto, che non contraddistingue affatto Sottocornola che, proprio in questa ampia opera di memoria e di rivisitazione, dimostra di voler mettere alla prova le sue acquisizioni per giungere ad “un punto di vista davvero universale (o più universale)”, traendo “cose nuove e cose antiche” dalla realtà spirituale, letteraria, esteriore e interiore. Propria, attraverso le parole di chi scrive, o di chi scrive sapendo leggere le sue parole.
E sono parole di testimonianza di un tempo che aveva uno spessore, dedicate ad un tempo, oggi, che di spessore ne ha molto poco, a volte per niente. Vuoto per i giovani e anche per chi era giovane al tempo dell’impegno; assente di significati veri, quasi la memoria di un trentennio fa sia relegata al sarcofago che sta aspettando un archeologo futuro per essere scoperto nei suoi veri motivi d’essere.
Oggi che abbiamo necessità di un codice legislativo per decretare la memoria, Sottocornola regala la memoria come testimone cosciente e protagonista del tempo che è perché è stato. Nella sua vita che è la nostra; il tempo trascorso, trascorso anche da lui, che è dato a noi così com’è proprio per come è stato.
E questo per la preoccupazione profonda dell’Autore verso il presente e le generazioni di giovani che vede smarrite. Smarrite perché senza una fede vera verso qualcosa che trascenda l’oggetto, l’oggettività, la tangibilità. Lo stesso Dio è stato oggettivizzato, è una “cosa”, idolo rappresentato dalla forza con la quale lo si tiene fermo nelle convinzioni dogmatiche, a qualunque religione appartengano, pur di non librarsi nel divenire. Anche (e soprattutto) della Spirito nel suo inesauribile manifestarsi…
Grazie ad una interessante divagazione teologico-ontologica, a partire da fatti di cronaca e di costume, passando per una vasta serie di filosofi, autori e testi tra i quali l’amato Panikkar, Sottocornola analizza l’attuale ragione di Dio, la cui esistenza si fa tanto più labile quanto meno ci si occupa dell’empatia, delle emozioni e dei sogni degli altri, dei giovani, delle generazioni che saranno.
Dio che è in tutto, e soprattutto nella poesia e nel sogno, cioè nell’afflato vero e spontaneo, si sta consumando nell’oggettività di cui non si conosce il senso, avendo perso il gusto sottile delle belle piccole cose. È nostalgia di sguardi incrociati per via o di una processione che rassicuri sulla condivisione, Dio.
Eppure anche quel senso di ricerca contemporaneo che giace nel timore di esprimersi. La proposta del Nostro dà voce, come bene deve fare il pensiero, a quanti vogliono si dica del loro bisogno. Anche quando e dove si continua ad insistere che si tratti solo di un bisogno effimero di oggetti nuovi e di merci.
Soprattutto di semplicistica semplificazione di ciò che è scomodo, o ritenuto tale.
Le emozioni, la coscienza, la necessità di motivazione, una ragione per agire che non sia puro egocentrismo, vanno bandite attraverso l’affrettata voglia di globalizzazione. Quel moderno termine per nascondere la paura della crescita e del confronto in nome di un ignobile appiattimento. La nostalgia per Don Camillo e Peppone è allora sinonimo della nostalgia per il vero e il bello, per l’amicizia fatta di lotte e rabbie, tra scazzottate e solidarietà che Claudio vorrebbe insegnare agli studenti così come ai lettori.
Proposta di ricerca ben lungi dall’essere mero revival melenso. Sottocornola non si preoccupa di essere “politically correct”, o no. Si preoccupa di fornire trasmissione sapienziale vera, auspicando per esempio che la scuola, nella corsa al meritocratico, voglia anche mettere nella lista dei requisiti l’insegnamento di vita esperienziale, non il semplice trasferimento nozionistico di ciò che è stampato in spesso sindacabili libri di testo.
Il sapere è nullo se non è interiorizzato e metabolizzato prima di essere trasmesso, nella convinzione che la cultura sia, e debba essere, un rapporto dialettico con se stessi, con la vita e con gli uomini per rappresentare, essere, veramente riferimento.
E riferimento per far percepire l’amore verso il tutto, filtrato dall’amore per il bello. Estetico e letterario. Umano e religioso.
Sottocornola è un pensatore credente e le sue dissertazioni sul credere sono di spessore, adatte a comunicare con quei molti cristiani che hanno lasciato la propria religiosità (scientificamente insita nell’essere umano) al catechismo della scuola elementare, mentre si dedicano a master universitari o a scandagliare filosofie studiate (queste sì) con interesse adulto.
La rivisitazione delle sue motivazioni, che soggiace a quest’importante pubblicazione di scritti degli anni ’80 (e non solo), dimostra la necessità e il bisogno, il bisogno necessario, di rivedersi, approfondirsi con gli occhi del poi, moderno Silone che riscriveva i suoi testi man mano che li rileggeva nel tempo (anche se Sottocornola, rileggendosi, si è capito e trovato interessante, quasi guardasse al sé ragazzo come un padre guarda al figlio che possiede già i virgulti per sbocciare bene).
La fede, ma anche i sogni della vita, non deve essere messa in un cassetto, cancellabile come una vecchia reliquia della quale non ci si ricorda la provenienza, ma deve essere affrontata per non cadere nella depressione dello sfinimento, gioco al massacro dell’acquisto continuo di beni effimeri, ancorché culturali. Così come non si possono tradire i sogni con la scusa che, forse, non si erano sognati davvero o, comunque, che fossero solo inattuabili fantasticherie di bambini.
Ci si può salvare da tutto questo anche con la poesia? Pavese, Montale, Neruda, Ungaretti, Prévert possono essere approfonditi o rivisitati in chiave urbana, metropolitana, nuovamente rivelativa, per assimilare la loro liricità come nutrimento per l’anima. Oppure si può ascoltare – e interpretare – musica vera: Sergio Endrigo, Rita Pavone, Franco Battiato, Milva, Paolo Conte…, e ricongiungersi alla radice popolare (e “universale”?) della sua anima, pasolinianamente intrecciata a quella della propria generazione, e del proprio paese. E trovare bellezza in tutto, quella che c’è, senza volerla tradurre “a nostra immagine”… ma trasferendo esperienze dall’altrove (Stati Uniti, la Spagna post-franchista, i viaggi nell’anima) come Vangelo per un’Italia che è maestra in tutto, come in tutto deve imparare.
L’ermetismo di certo ha insegnato molto alla sintesi, ma la ricerca di Sottocornola si è avvalsa soprattutto di perfezionamento della parola perché questa aderisse sempre più al concetto e alla comunicazione. E la ricerca culturale sul “popular” (giornalistica, musicale, sociologica), sembra essere stata sorprendentemente anticipata dall’incontro con la spiritualità di Charles de Foucauld, il “Fratello Universale”, ma anche dall’interesse per Omero, Galileo e Shakespeare, che lavorando fianco a fianco con gli artigiani o con il popolo degli spettatori, hanno saputo dare aderenza al reale e al proprio pensiero…
Tanto come ricercare il quartiere nelle processioni o nel “tutti che conoscono tutti” in un cimitero, luogo in cui si trovano conoscenti ormai solo foto sulle lapidi, ma anche conoscenti che cercano di mantenere i legami con il proprio vissuto, con quel quid della vita che si comprende solo con la morte. Relazioni che hanno una ragione d’esistere, una connotazione di realtà nel cercare la morte per sentirsi vivi e per “generare ordine e armonia in noi e attorno a noi e raggiungere il più alto grado di universalità che ci è possibile”. La morte come senso della propria esistenza, perché è la vita eterna “ciò che più conta”.
Sottocornola pone l’accento anche su un’altra considerazione del nostro tempo.
La carenza di relazioni per pigrizia, mancanza di pazienza, perché ad un certo punto le persone stancano, annoiano, ci pesa telefonare, scrivere, sopportare i difetti che diventano evidenti con la frequentazione. Forse non siamo in grado di sopportare noi stessi, in fondo, e vogliamo reinventarci come se ci rimodellassimo solo cambiando compagnie o presunte amicizie.
L’aiuto a non demordere, a non deviare, arriva a Claudio ancora una volta dai suoi studi e approfondimenti. Ecco allora proprio la tesi su Charles De Foucauld, che gli ha permesso di acquisire la “determinazione di senso dell’attimo”. E di imparare a percepire, dentro di sé, quell’universalità che fa trovare Dio nel simbolo eucaristico come crogiolo di cultura e di vita, metafora dell’impercettibilità che deve avere tutto ciò che evoca Dio stesso prima che, se fosse un contenitore granitico (o anche gli oggetti di cui scrivevamo prima), se ne vada molto lontano da noi.
Sottocornola ritrova se stesso nella sua tesi, ma anche nelle pagine passate e mai così attuali di articoli dai contenuti ecclesiologici (con una spiccata attenzione per la missionologia) che ne hanno caratterizzato l’impegno giovanile. Il percorso è profondamente intimo ed emozionale, un andare a ritroso per capire come andare avanti e perché farlo, certificare i propri passi e legittimarli con gli occhi del senno di poi, osservando la costruzione a partire dalle fondamenta. Soprattutto quelle, dall’adolescenza alla maturità, degli “Scritti spirituali giovanili…”, antologia/diario delle influenze (da Agostino a Heidegger, da San Paolo a Panikkar, dal Qoelet a von Balthasar…), delle riflessioni in profondità, dei tentativi di falsificazione – dolorosi ma necessari – per pervenire a una più profonda esperienza di vita.
Interessante, sul piano emozionale, la conclusione della premessa a questi scritti: “Sono curioso di vedere se il cammino che mi ero prefissato trent’anni or sono è almeno iniziato”.
Vita spesa invano dunque? Timore? Crisi esistenziale di mezza età? Oppure quadratura di un cerchio, controllo della taratura della bussola, volontà di mettere in discussione il mondo attraverso la lente d’ingrandimento del sapere acquisito diventato saggezza?
Mantenere il contatto con il proprio punto di partenza, le proprie radici, l’infanzia, i propri percorsi adolescenziali e giovanili, è il merito dell’Autore di questo avvincente, corposo e interessante lavoro…
Perché non ci dobbiamo dimenticare che nella storia molti cambiamenti si sono dovuti ad esseri umani insofferenti della complessità e dell’impegno, persone che aborrivano leggi, valori e filosofie, ricordi e tradizioni per superficialità personale e dabbenaggine, comunque non per pregio o virtù. E ogniqualvolta l’umanità è ripartita da tale semplicismo, ha dovuto ripercorrere i sentieri della complessità per ritrovarsi e riscoprirsi, mediante il recupero memoriale come (dalla notte dei tempi) unica modalità per sopravvivere e sperare di continuare ad esistere.
Oggi che la filosofia non c’è più perché messa da parte dai semplificatori, ecco che Sottocornola pone la sfida ed insegna che la filosofia, la domanda di senso, si pone nei gesti quotidiani, nel quotidiano vivere, nell’attualità della cultura pop e rock contemporanea, nel quartiere come negli squarci di quei mitici anni ’80 (rappresentati dall’autore nella celebre serie di collage “Eighties”) che ipotizzano qualcuno a rappresentare “quei mitici anni ‘10” di un millennio aperto su un lungo orizzonte di secoli, eppure guardato ormai dai più con fiacco entusiasmo…Ma infine, perché ho letto “I pani e i pesci”?
Sembra scontato: per scriverne. In realtà non è vero.
Sono curiosa, pertanto mi piace scoprire se sono in grado di capire.
Se leggendo un testo sono in grado di trovarci la motivazione dell’autore.
Se poi, confrontandomi con l’autore, ho capito il libro che ho letto. Pericolosissimo. Molti miei colleghi che si occupano di critica letteraria non lo fanno assolutamente. Bandito sapere se avevano ragione e se l’autore è contento. Solitamente soggiace a questo modo di fare l’affermazione che tanto nemmeno l’autore si capisce e non avrebbe mai detto di avere scritto proprio quello che pensano i critici. Tranne quando si sente di emeriti litigi perché non è affatto così, si è letto l’esatto contrario delle convinzioni di chi ha scritto.
Anch’io come Claudio mi metto alla prova. Con me stessa. Leggo da sempre di tutto. E scopro sempre qualcosa di me. Come insegno spesso, non è tanto il libro che deve essere ricordato, quanto le parole, i personaggi, le considerazioni che sono venute da dentro e che il libro ha contribuito a far nascere. Quello resta per sempre.
Leggendo le pagine di quest’opera, resta il senso delle cose che restano per sempre, un indirizzo dato a chi vuole ritrovarsi, ripercorrersi, sapere di non essersi smarrito, perduto dietro la quotidianità, anche quella più nobile…
Resta il senso di chi, non essendosi smarrito per niente, condividerà i luoghi, perché qualcuno ancora ricorda le processioni alle quali dava un motivo e una motivazione, ma anche gli oratori, i preti che giocavano a pallone con i ragazzi, le gite e i volantinaggi, la raccolta di oggetti e la festa per gli anziani. E la provocazione come mezzo di riflessione, come quella che è implicita in molti scritti di Sottocornola.
Credenti in Dio o no, ancora esistiamo con lo spessore di credere in ciò che si faceva (e si fa!), senza stupirsi che ci fosse altro che apparire in martellanti spot pubblicitari o reality e che si possa comunicare senza l’ausilio di satellitari.
Noi, che non siamo statue e nemmeno totem scolpiti nella vecchiaia, restiamo coloro che hanno il dovere morale di parlare alle nuove generazioni del tempo. Quello che non è fatto per vivere come se si fosse abitualmente sotto i riflettori. Quello dell’anima e dell’interiorità. Del rimorso e della gioia tra sé e sé, poi da condividere fuori come un urlo di vitalità.
O pagine di un libro. Il tempo della semplicità di una vita vissuta e dedicata, pensata sapendo di avere pensato quello che si operava e perché.
Il tempo di amare la vita. Il tempo. Quello che sta sfuggendo a troppe persone, perse dietro giochi di sopravvivenza che non capiscono più.Per questo, questo libro è da leggere.

Il pane e i pesci, My status quaestionis 2010, Prefazione di Alessia Biasiolo