Paolo Leidi

Un prosimetro per salutare il ’900
Buonasera signore e signori. Benvenuti anche da parte mia all’incontro di questa sera. Come ha anticipato Claudio Sottocornola, mi chiamo Paolo Leidi e al pari forse di altri di voi in questa sala sono un ex studente del Liceo Sarpi.

Dopo il liceo ho proseguito i miei studi laureandomi in Lettere e Filologia e lavorando come giornalista, ed è perciò nella veste di critico che vi parlerò oggi, per dire qualche parola sul libro che presentiamo.

Non sono stato un alunno diretto di Sottocornola professore, e me ne dispiace, perché mi ha dato una nuova visione di quello che può essere un professore di liceo; in realtà l’occasione in cui ci siamo conosciuti è più recente e risale a pochi mesi or sono, quando mi è stato chiesto di intervistarlo per La Voce di Bergamo. In quell’occasione parlammo delle sue molteplici attività e del suo libro, e sono questi gli argomenti a cui vorrei brevemente introdurvi con il mio intervento, prima che Sottocornola stesso legga le sue poesie. In ogni caso, ascoltare le poesie di un poeta dalla sua stessa voce è un privilegio che (non so a voi) a me è capitato poche volte nella vita, quindi già questo merita di averci raccolto qui.

Inizio subito dal cuore della faccenda: il titolo dell’opera, che è Giovinezza… addio. Diario di fine ’900 in versi. Titolo suggestivo ma non solo; come spesso accade, anche in questo caso esso rileva più di quanto possa sembrare ad un primo sguardo; ci racconta forma e ambizioni di questo libro, che ne ha a dire il vero.

Vediamolo insieme nel dettaglio. Innanzitutto Giovinezza… addio vuole essere, evidentemente, un saluto alla giovinezza, quando il suo autore sente di essere sul punto di lasciarla, forse ha trovato in queste poesie l’unico modo per trattenerla, e forse la storia della letteratura è solo questo, un tentativo di trattenere questa capacità di sentire che poi con gli anni, se non vien meno, si modifica, perde di intensità, di percettività emotiva… Un commiato che risale ad una data ben precisa: il lunedì dell’Angelo del 1994, giorno in cui prende corpo la struttura del testo, come cercherò di illustrare. Il sottotitolo Diario di fine ’900 in versi ci indica però quella che è una velleità e una cifra fondamentale di questo lavoro: operare una sintesi tra la dimensione personale, quella che comunemente nell’ambito poetico si dice lirica, e la dimensione storica, intendendo con questo il mondo che ogni autore si trova ad attraversare nel corso della vita, proprio come ogni altra persona. Ed allora il saluto si fa duplice ed è rivolto non solo ad una stagione passata dell’esistenza dell’autore, ma ad un secolo intero che sta per terminare allorché l’opera inizia ad acquisire una fisionomia distinta.

Da notare c’è ancora quel “in versi”. Un’indicazione di carattere formale non da poco. Vedete, ciascuno nel corso della sua vita ha qualche volta pensato di tenere un diario, probabilmente la maggior parte delle persone ci prova anche… Qualcuno lo tiene per anni, qualcuno per poche settimane (come il sottoscritto che vi ha provato più volte) o solo per giorni. La scelta qui fatta, e cercherò di illustrarla tra poco, è impegnativa. I versi implicano un registro completamente diverso. Il poeta inglese Auden diceva “benedette tutte le leggi metriche che vietano risposte automatiche: ci costringono alla riflessione, liberando dalle pastoie dell’io”. In altre parole, lo sforzo formale, anche nel caso del verso libero usato da Claudio Sottocornola nei suoi componimenti, verso che segue la musicalità più vicina alla sensibilità del ‘900, implica un impegno e uno sforzo che costringe a elaborare le proprie esperienze prima di riversarle sulla carta. E questo io credo sia uno dei pregi alla base dell’effetto terapeutico e rivelatorio della scrittura, in massimo grado quella poetica. Un pregio che le pagine di questo libro conservano. Un impegno, quello della ricerca di una forma in cui condensare le proprie esperienze, che si può avvertire in tutto il libro.

Dal punto di vista tecnico-formale l’opera è un prosimetro, una forma non molto sperimentata nella tradizione italiana più recente. Il termine indica un’opera in cui si succedono liberamente o secondo un ordine prefissato poesia e prosa. Per citare gli antecedenti più famosi possiamo pensare al De consolatione Philosophiae di Boezio, alla Vita Nuova di Dante e all’Arcadia del Sannazzaro. Nell’Otto e Novecento, gli esempi di prosimetro sono andati scemando, sostanzialmente perché si tratta di una forma molto complicata, in quanto accostando poesia e prosa, l’una investe l’altra delle proprie caratteristiche: la poesia deve diventare capace di esprimere contenuti molto forti, quasi analitici, saggistici, propri della prosa, e la prosa, allo stesso tempo, ha il compito molto difficile di creare una cornice entro la quale le poesie acquisiscono forma e una legittimazione.

In questo caso l’esperimento appare però perfettamente riuscito: si tratta per lo più di poesie, divise in sezioni che fungono come da tappe di un processo di formazione durato i vent’anni durante i quali queste poesie sono state scritte. La volontà di comporle in un lavoro unitario, dice l’autore, è successiva e risale al lunedì dell’Angelo del 1994, data alla quale risalgono i brevi testi che introducono le diverse sezioni e guidano nel procedere del testo. In un certo senso però la volontà di testimoniare di un proprio percorso e del mondo in cui si è svolto è sottesa ad ogni riga scritta, all’idea stessa di scrivere poesie che rappresentano una ricerca di sintesi tra la storia personale dell’autore e il mondo.

Cosa entra del mondo nei versi di Claudio Sottocornola? Un po’ tutto, per dirla in maniera semplice: entra tutto l’insieme delle esperienze che un quindicenne può fare negli anni ’70, fino a quelle che possono essere poi le esperienze di una persona matura, dopo vent’anni di insegnamento, di esperienza giornalistica, di viaggi, di conoscenze dei più svariati generi. Per citare alcuni esempi, in queste poesie entra la filosofia, entra Sartre, entra Heidegger, entra la musica contemporanea, entrano i miti dell’America di fine anni ‘70 (che nella cultura italiana di allora crea dei rimescolamenti incredibili di cui qui ci sono tracce e tracce), c’è la Spagna post franchista, c’è la fine della Prima Repubblica italiana, c’è la politica, c’è il cambiamento vorticoso delle città italiane, c’è la solitudine delle periferie nelle metropoli, c’è la piccola vita di provincia, ci sono i paesi, c’è la dimensione dell’oratorio, c’è la dimensione del sacro e del religioso vario, c’è tanta musica, c’è tanta cultura pop. Ecco, questa è, a mio parere, una delle cifre fondamentali dell’esperienza di intellettuale, prima ancora che di poeta, di Claudio Sottocornola, che ritorna in tutte le forme culturali e artistiche in cui si esprime, nella canzone, nei collages che avete visto all’ingresso, nella poesia, nel giornalismo: il mescolare – è stato detto – sacro e profano, ma soprattutto, e più in generale, cultura, cultura “alta”, istituzionale (ma interessante, perché sempre rielaborata in chiave personale) e cultura pop, che si sente alla radio, che si ascolta allo stereo, che si vede nelle strade, ai concerti… C’è una poesia bellissima su un concerto di Michael Jackson, che Sottocornola è andato a vedere. Ci sono i ricordi delle interviste alla Pavone, a Gianni Morandi, ci sono una serie di stimoli che rendono queste poesie estremamente varie, in cui, qualche volta, un po’ ci si perde… ma è un perdersi divertente, è un perdersi molto piacevole perché è la sintesi di un vissuto ricco, che poi genera la poesia migliore.

Tutti questi elementi irrompono in un paesaggio lirico, fatto di versi spesso brevi, ellittici, che danno il senso di una poesia di grande musicalità che procede per illuminazioni ed evocazioni.

Non voglio però insistere troppo su questo, preferisco sia l’autore stesso a proporci i suoi versi. Aggiungo solo una considerazione, e lo faccio vestendo i panni del liceale prima che del critico. Prima di leggerne i versi, ciò che mi ha stupito è la molteplicità delle esperienze umane e artistiche di Sottocornola, che poi ritorna nella ricchezza, nella varietà, nella imprevedibilità delle sue liriche. Non si può fare grossa poesia, poesia importante, poesia in cui le persone riescano a riconoscersi, se non si è vissuto… Così, in Giovinezza… addio, ho potuto ritrovare la tensione di un intellettuale che con impegno e umiltà si pone in continua ricerca, nella poesia come nella vita, della forma e della cifra più adeguate per rendere ragione di un tempo, per conferire un senso, prima che al mondo, alla propria esistenza… Ed è qui che si ritorna alla dimensione lirica e personale della poesia e si chiude il cerchio.

Se dovessi indicare una chiave di lettura di quest’opera – scelta comunque sempre azzardata – e del suo autore, direi proprio questo: una rilettura, “colta” e “lirica”, dei più svariati elementi che hanno arricchito, condizionato, attraversato la vita dell’autore alla fine del ‘900, in vent’anni di esperienza, quasi a voler condensare il proprio tempo nell’unica forma in cui è dato conoscerlo, e cioè attraverso la propria esistenza, o un periodo di essa, per chiarirselo nel momento in cui lo si saluta. Pensando alle innumerevoli attività di Claudio Sottocornola (e l’ho avvertito, ovviamente in maniera più superficiale la prima volta che l’ho incontrato per intervistarlo, lo penso adesso, a ragion veduta, dopo aver letto più volte i suoi versi) non può non affacciarsi alla mia mente l’idea di un uomo che la curiosità per la vita porta a continue sperimentazioni secondo canali molteplici e differenti, animato da un perenne sforzo di sintesi che si risolve in pura interpretazione.

È questa infatti, l’interpretazione, che si propone come chiave risolutoria di un dissidio presente nei versi più ispirati, che si percepisce – ne sono sicuro – tanto nei versi del poeta quanto nelle lezioni del professore di filosofia che nella voce del cantante.

Grazie per l’attenzione.

Presentazione del libro, Centro San Bartolomeo, Bergamo, 26 giugno 2008

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