In “La fatica dell’intero” Claudio Sottocornola mette a confronto opzioni all’apparenza inconciliabili per orientare a una concezione del pensiero come armonia e sintesi, nella convinzione che la verità si manifesti sempre come polifonia di interpretazioni diverse
Sono tredici i quesiti che Claudio Sottocornola – filosofo della crisi del sacro nella contemporanea cultura popular – affronta nel suo nuovo libro “La fatica dell’intero. Il pensiero come arte dell’incontro” (Oltre Edizioni, 2024), nell’intento di unire e armonizzare, mostrando che l’aporia o contraddizione tale non è se si individuano piani diversi di realtà, e si accetta il carattere prospettico, storico e situato della propria percezione, sia in ambito cognitivo che esistenziale.
Verità o appartenenza? Coscienza o legge? Bisogno o libertà? Uguaglianza o gerarchia? Eroismo o gentilezza? Tecnica o mistica? Sono solo alcune delle opzioni che l’autore contrappone in un intrigante percorso che orienta il lettore a una nozione di verità come sintesi, e alla conseguente implicazione, che vede nell’atteggiamento dialogante, empatico e inclusivo, lo strumento più idoneo a perseguirla. Per Sottocornola infatti le nostre interpretazioni del mondo divergono anche perché diverso è il mythos che le sostiene e, mentre sarebbe fuorviante cercarne una comune omologazione, appare decisamente più proficuo sforzarsi di capire il punto di vista dell’altro.
È tale approccio ermeneutico che ci permette, grazie ad una concezione della conoscenza come interpretazione – e dunque come integrazione di prospettive –, di includere opzioni contrastanti in una formulazione di senso che, in qualche misura e modalità, le avalla entrambe, superando la semplice negazione manichea di uno dei due termini. Mostrare che una risposta univoca non è la migliore soluzione di un quesito, ma forse espressione di un eccesso di semplificazione, aprire un orizzonte al gioco delle diverse prospettive in campo, suscitare conversazione per avallare in qualche modo il punto di vista dell’interlocutore, sono solo alcune delle attitudini che Sottocornola intende promuovere con questo accattivante lavoro, nell’intento di contribuire a generare un’esperienza del pensiero come arte dell’incontro, superando luoghi comuni, cliché e appartenenze nella elaborazione di un pensiero autonomo, originale e inclusivo.
Abituati ai talk show di successo e alle risse verbali che essi ospitano, ci accorgiamo, scorrendo le 130 pagine de “La fatica dell’intero”, che il pensiero di Sottocornola non comporta mai livore, ma empatia, generando un’attitudine all’incontro ormai in gran parte disattesa dal contesto storico-culturale in cui viviamo, ove le appartenenze determinano troppo spesso i parametri – sempre più banali – della discussione pubblica. E – a proposito di verità e appartenenza – vi si legge: “Scrive il grande poeta spagnolo Antonio Machado in una celebre poesia: ‘La tua verità! No: la verità/ vieni con me a cercarla./ La tua, tientela’. Ancora una volta, la verità è inseparabile dalla comunione, e la caritas ne è l’universale modalità d’accesso”. Così Sottocornola, a volte frainteso e letto esclusivamente come autore metafisico, si rivela in realtà soprattutto ermeneutico, ovvero pienamente consapevole del carattere interpretativo della nostra conoscenza, e tuttavia non inutile, in quanto destinata a evocare la verità entro una dimensione polifonica, decisamente più affascinante di quella solistico-ideologica.
Scopriamo così che la mission di Claudio Sottocornola – quella di coniugare le istanze della metafisica classica con quelle del contemporaneo pensiero debole – sarà forse impossible, ma è senz’altro stimolante e avvincente, ottemperando alle opposte esigenze di fornire una stabile bussola di riferimenti teoretico-esistenziali al disorientato lettore postmoderno, e insieme di relativizzarne le pretese di esaustività e univocità, nell’approdo a una comprensione umile ma esigente, evocativa ed empatica, dialogante e mai apodittica.
Nell’Introduzione, a chiarire tale tensione fra metafisica e relativismo, leggiamo: “Le nostre interpretazioni del mondo infatti divergono anche perché diverso è il mythos che le sostiene, e fuorviante sarebbe cercarne l’omologazione universale, mentre appare decisamente più proficuo sforzarsi di capire il punto di vista dell’altro, ciò che egli realmente significa quando, ad esempio, si differenzia da noi in una prospettiva che sembra irriducibile alla nostra, ma che potrebbe celare in realtà un’opportunità atta ad allargare la nostra visuale, integrando la nostra esperienza e ampliando il nostro orizzonte percettivo.[…] Quanto più si tende al fondamento, all’origine, a quel che le varie tradizioni spirituali chiamano Dio, tanto più si considera l’unità – equivalente del punto di vista virtualmente divino – come categoria alla cui luce guardare il mondo; quanto più si percepisce la propria natura finita e limitata – e, con linguaggio teologico, creaturale –, tanto più si relativizza la propria conoscenza e se ne coglie il carattere situato, parziale, prospettico. Ma è dalla sintesi delle due esperienze – l’anelito al punto di vista divino, la consapevolezza del proprio limite umano – che la nostra conoscenza diventa ermeneutica, e cioè pienamente conscia del proprio carattere prospettico, e dunque rispettosa, accogliente, empatica, dialogante, capace di integrare la prospettiva dell’altro come ricchezza e opportunità nel moltiplicare la propria esperienza dell’essere, e dunque il nostro amore di Dio”.
Ancora, a proposito del rapporto fra eroismo, che l’autore giudica occasionale e autogratificante, e gentilezza, che ritiene invece qualità fondamentale ma disattesa dalla società contemporanea, egli auspica l’avvento di una nuova figura di eroe: “Che sia un eroe gentile però è quello che – in questo nuovo millennio aperto da speranze inaudite e da terribili minacce – ci sentiamo di auspicare. E dunque un eroe non più riconoscibile dalla eccezionalità e visibilità della sua azione, ma piuttosto dalla quotidianità del suo impegno nascosto”.
Così la tessitura del pensiero di Sottocornola si chiarisce ulteriormente in questo nuovo lavoro, come un’epica del quotidiano, un invito alla resilienza, un auspicio che alla immane presenza di tecnica nella società odierna si associ una rinnovata esperienza mistica (intesa alla Bergson), come capacità di trasfigurare la vita alla luce della qualità assoluta e trascendente che la abita.
Claudio Sottocornola (Bergamo, 1959) si è laureato all’Università Cattolica di Milano con una tesi in Storia della teologia. Già ordinario di Filosofia e Storia nei licei, è stato anche docente di IRC, Materie letterarie, Scienze dell’educazione e Storia della canzone e dello spettacolo alla Terza Università di Bergamo. Iscritto all’Ordine dei giornalisti dal 1991, ha collaborato con diverse testate, radio e tv. Come filosofo si caratterizza per una forte attenzione alla categoria di interpretazione, alla cui luce indaga il mondo contemporaneo, ed ha spesso utilizzato musica, poesia e immagini per parlare a un pubblico trasversale, nelle scuole, nei teatri e nei più svariati luoghi del quotidiano. È autore di numerose pubblicazioni, che coinvolgono tre aree tematiche prevalenti: l’autobiografia intellettuale, la cultura popular contemporanea, l’attuale crisi del sacro in Occidente e la sua possibile rimodulazione teologico-filosofica. Fra le opere più recenti, “Saggi Pop” (Marna, 2018), “Parole buone (Marna/Velar, 2020), “Occhio di bue” (Marna, 2021), “Tra cielo e terra” (Centro Eucaristico, 2023), “Fiorire nel deserto” (Velar, 2023), “Così vicino, così lontano” (Velar, 2023), “A che punto è la notte?” (Oltre Edizioni, 2024).