Una cultura al ritmo del pop

Orsola Mirò

Per Claudio Sottocornola, docente di Storia dello spettacolo, la canzone è una forma di cultura popolare: De André e Battisti sono diventati classici, Mina, Vanoni e Patty Pravo hanno cambiato l’immagine della donna, i giovani si rispecchiano nei teen-idols
Nella canzone idee, mode ed emozioni

Sin dall’antichità la canzone, singolare connubio di poesia e musica, è stata considerata una delle principali forme di espressione artistica, un mezzo straordinario per raccontare avventure, idee, stati d’animo. E’ soprattutto nell’epoca contemporanea, però, che la canzone è arrivata a toccare davvero tutti gli strati della popolazione, divenendo ora veicolo di messaggi sociali e politici ora strumento di pura evasione, ma in ogni caso specchio e icona della moderna società di massa.

Alla vigilia del Festival di Sanremo, chiedo a Claudio Sottocornola, docente di Storia della canzone e dello spettacolo alla Terza Università di Bergamo, nonché musicista e interprete di grande originalità – è autore fra l’altro di un triplo cd, L’appuntamento, nel quale ha inciso 33 brani storici della canzone italiana – di fare il punto sulla «forma canzone» oggi.

- Professor Sottocornola, i suoi studi sulla canzone fanno pensare che lei la consideri una forma di espressione alta, paragonabile alla poesia o alla musica colta. E’ così?

«Credo che per capire la canzone contemporanea occorra abbandonare la distinzione fra cultura ‘alta’ e ‘bassa’. Ogni grande tradizione culturale che non sia appannaggio di un’élite o di una scuola è all’origine popolare. Shakespeare, Omero, Verdi lo erano. Col tempo, poi, queste espressioni artistiche subiscono un processo di istituzionalizzazione, e quindi ciò che è popolare diviene ‘accademia’. E’ capitato a tutti i classici, e sta accadendo oggi, per esempio, a De André e a Battisti».

- Eppure sono molti quelli che non riescono ad accettare un confronto fra Mozart e, per esempio, Madonna…

«Forse hanno ragione, ma solo in parte. Una volta il grande cantautore francese Georges Moustaki mi disse: ‘Si ricordi che non ci sono canzoni stupide, ogni canzone è nel suo genere un valore assoluto, sia che ci faccia ballare, divertire, pensare o dimenticare’. Detto questo, è vero che una parte della musica contemporanea è banale. Ma lo erano anche molte liriche della seconda generazione di romantici. Certo, oggi il mercato, con le sue leggi, rischia di condizionare la creatività, e allora per trovare un autentico prodotto artistico bisogna andare a ‘stanarlo’, magari fra quelli autoprodotti o finanziati dalle piccole etichette».

- Nella storia della musica popolare italiana, quali sono stati secondo lei i capitoli più significativi?

«Per esempio gli anni Cinquanta, durante i quali prese corpo la società italiana com’è oggi: anni dei cantanti confidenziali, del primo Sanremo, del night, degli urlatori. E poi il periodo del divismo femminile, che dagli anni Sessanta ci ha consegnato voci che sono divenute quasi parte del nostro inconscio collettivo: da quella pastosa della Pavone a quella metallica di Mina, da quella afona e dalle timbriche basse di Patty Pravo a quella vibratile e vellutata della Vanoni. E ancora la germinazione di autori atipici come Jannacci e Paolo Conte, e il fenomeno dei teen-idols che, dagli anni Sessanta, hanno trascinato il mercato e cambiato la musica e il costume».

- Lei ha incontrato e intervistato numerosi grandi personaggi della canzone e dello spettacolo. Quali l’hanno colpita di più?

«Ricordo una lunga intervista telefonica con Wanda Osiris, che mi parlò della sua nostalgia per le luci del varietà; l’incontro con Rita Pavone al Teatro Carcano di Milano, prima dello spettacolo, mentre si asciugava i capelli e sembrava un fascio di nervi, pronta a esplodere in scena col consueto carisma; e poi l’intervista-ritratto a Paolo Conte, che mi raccontava del pudore e delle reticenze di un uomo cresciuto nella provincia italiana degli anni Quaranta; una tenerissima chiacchierata con Mia Martini, che poco prima della sua tragica morte mi parlò del suo amore per l’arte e per la musica. Ma ricordo anche un’imprevedibile Nilla Pizzi, che ironizzava sul titolo di ‘regina della canzone’ affibbiatole dopo le vittorie sanremesi».

- Da dove è nata la sua passione per la canzone?

«Probabilmente dal fatto di essere stato bambino nel decennio aureo degli anni Sessanta, quando arrivavano in Italia, con i 45 giri e i juke-boxes, i nuovi ritmi provenienti dall’America, e risuonavano dalle radio le voci di Paul Anka, dei Beatles, della Pavone e di Di Capri. Erano anche gli anni migliori del Festival di Sanremo che, tra il 1962 e il ’69, vide sfilare personaggi del calibro di Louis Armstrong, Shirley Bassey, Wilson Pickett, Dionne Warwich. Per non parlare degli altri festival come il Cantagiro, Un Disco per l’Estate, il Festival di Napoli…».

- Cosa pensa del Festival di Sanremo odierno?

«Il Festival ha avuto, per la maturazione della canzone italiana, un ruolo insostituibile negli anni Cinquanta e Sessanta, quando il lessico musicale doveva essere sprovincializzato e i grandi artisti internazionali che venivano nella città dei fiori c’insegnavano a farlo. Oggi il Festival non è che un contenitore televisivo, dove la musica è solo comprimaria. Il Festival dei miei sogni dovrebbe essere simile a quelli del cinema di Cannes o di Venezia: una grande rassegna di generi musicali, con passerelle e serate d’onore dedicate ai grandi della canzone, con artisti stranieri che vengano a portare il loro tributo alla canzone italiana e non a promuovere il loro nuovo cd. Ma non vedremo mai questo Sanremo. E la musica, mortificava in tv, dovrà riconquistare i propri spazi mediante un rapporto sempre più sinergico con il territorio, le istituzioni culturali, i teatri».

- Ma al di là del Festival, dove va oggi la canzone popolare?

«La parola chiave per capire le tendenze attuali è ‘contaminazione’. E’ sotto gli occhi di tutti la caduta di barriere fra generi musicali ma anche fra aree geografiche: il rock diventa ispanico, il Nord-Africa influenza l’Europa mediterranea e persino l’Estremo Oriente si insinua negli stacchetti musicali di Mtv, mentre l’inglese diventa lingua musicale per eccellenza. Possiamo dire che un ragazzo europeo, sudamericano, statunitense o giapponese tendono ormai ad avere il medesimo gusto musicale, formato sul suono e sulle atmosfere del pop internazionale. C’è poi una tecnologia in grado di conferire all’evento musicale i caratteri della virtualità e che permette di contaminare forme di espressione diverse, all’insegna di un ‘evento totale’. Tutto ciò rappresenta una grande opportunità, ma anche un rischio di omologazione e contraffazione totali. Che ne sarebbe di un mondo senza canzone francese, italiana, napoletana, senza fado portoghese…?».

Orsola Mirò, Il Giornale di Brescia, 25 febbraio 2006

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