Working Class

L’immagine della donna nella canzone

Ultimo appuntamento con ‘Working Class’, il suggestivo web-concert tematico ideato e interpretato dal ‘filosofo del pop’ . Martedì 31 luglio sarà disponibile in rete la quinta sezione del nuovo progetto, dal territorio a internet (continua…)

L’immagine della donna nella canzone

Ripercorrere la storia della canzone italiana è interessante quanto ripercorrere la storia d’Italia attraverso la canzone. Un calembour che, in realtà, intreccia altre storie, quelle di ciascuno di noi o dei nostri genitori o dei nostri nonni, e quelle di immagini televisive che ci appaiono sbiadite e dai contorni strani, rivedendole oggi come se non fosse passato il tempo, o come se ne fosse trascorso molto di più del reale.
Pertanto scegliere alcune canzoni per cercarne il leit-motiv, ma anche per scrivere un diario che avevamo lasciato nel cassetto della memoria, come fa Claudio Sottocornola nelle sue lezioni-concerto, è senz’altro un’operazione intelligente per non perdere quel senso del vissuto e quel senso del tempo che oggi sempre di più scompare.
I motivi non è questa la sede per sondarli. Bisogna soltanto mettere a fuoco che abbiamo sempre più bisogno di memoria tridimensionale dei fatti accaduti, perché i testimoni degli ultimi due decenni pagano lo scotto di avere sempre più avuto a che fare con un monitor (televisivo o del computer) che non con i fatti veri. Anche nel mondo della canzone, o della canzonetta all’italiana come si diceva un tempo, i testimoni sono necessari per sottolineare fatti e personaggi, sentori e motivazioni che vanno ben al di là del mordi e fuggi commerciale al quale siamo abituati oggi.
E questo non vuole affatto essere un polpettone critico tipo post sermone della domenica.
È un dato di fatto. Senza paura di essere ipercritici, antimoderni, retrogradi. Affatto. Oggi abbiamo bisogno di testimoniare, alzare la voce, fare sentire il senso del fare che si sta sempre più perdendo dietro la velocità dei messaggi postati sul web, falsi slanci emotivi che spesso non hanno costrutto nel vissuto e nel sentire veri. Pertanto si valutano le canzoni contemporanee, alcune molto belle, in base ai dati di vendita, ma anche per la quantità di brani scaricati dal web, in tempi così rapidi, con le cuffiette che mandano suoni così in fretta che non ci si attarda più sull’emozione.
Il tempo, infatti, fa la differenza.
Il rito di trovare il disco, portarlo a casa e posizionarlo sul giradischi, con la puntina che doveva delicatamente essere messa sul solco giusto, aveva con sé anche un lungo senso di tempo e di consapevolezza, la magia di un sogno che si andava realizzando sotto i nostri occhi e grazie a noi stessi.
Lo stesso dicasi per il mangiadischi che perdeva un po’ del fascino di permettere di vedere il disco girare, ma che aveva il profumo della libertà di portarsi il disco stesso in giro dappertutto. E poi c’erano i problemi, che si infilavano tra la propria voglia di evasione, di assomigliare a quelle voci che uscivano da quegli aggeggi non privi di fascino, e la nostra miseria umana che spesso portava a non avere le puntine a posto, a rigare il disco, a strappare inavvertitamente la copertina che riportava le immagini degli idoli del momento. Per non parlare poi del divertimento e della rabbia con i nastri delle cassette che ci si ingegnava di riavvolgere con dito infilato nel rotolino dentato, oppure che si riavvolgevano con il pennarello della misura giusta, perfettamente inserito tra i dentelli di plastica del miracolo della tecnologia. Nastri magnetici che si rompevano e venivano pazientemente medicati con nastro adesivo trasparente, quando poi non decidevano di incastrarsi irrimediabilmente nel riproduttore e sempre quando doveva suonare la canzone preferita. Allora si passava alle richieste alle radio locali, cercando disperatamente di registrare quello che usciva dall’aggeggio e perdendo sempre qualcosa: una nota, un pezzo di musica, il titolo della canzone o la dedica; oppure ci si scambiava i nastri, i dischi… Un delirio.
Chi pensa: “Bei tempi”, beh, si sbaglia! Niente a che vedere con la perfezione del suono dei cd, con la riproduzione pressoché perfetta dei lettori mp3 eccetera, eccetera, e con la facilità con la quale ci si può spedire un brano, da un telefonino all’altro, da un computer all’altro, scaricandolo con la velocità della luce, rispetto al tempo di scelta nel negozio di dischi. Eppure, chi non era ancora nato o chi era in fasce come me ai tempi del boom della canzone italiana, non può non constatare che ha trascorso tutta la vita con gli stessi brani: non manca Natale, Capodanno, discoteca, festa di compleanno che non faccia riascoltare la saga dei Watussi, il twist, il trenino e chi più ne ha più ne metta. E non c’è giovane che non conosca i classici che hanno reso famosa nel mondo la canzone italiana, sedimentata nel vissuto collettivo in frac, o librata nell’Azzurro di un cielo blu dei nostri più amati cantanti.
La canzone italiana, quindi, è frutto di un Paese che ha saputo delineare se stesso attraverso le note anche nei momenti più bui, più difficili, più inossidabili dell’Italia travolta da bombe, scandali, crisi politico-militari, o terroristiche o di mafia. L’Italia delle colombe che volavano e che poi sono diventate i “maschi” graffianti che mai avremmo immaginato di sentire celebrare così.
Per poter avere una panoramica della canzone italiana più vera, non scevra di interessi economici, di scelte di mercato (basti pensare alla “Bambola” che Little Tony si era rifiutato di cantare e che è diventato uno dei cavalli di battaglia della splendida voce di Patty Pravo, poi anche in duetto con lui), di trovate grandiose come il Cantagiro o Canzonissima, per citare solo alcuni degli spettacoli musicali che hanno lanciato i big della canzone italiana per decenni, attraversiamo alcune delle canzoni più famose cantate dalle donne, grazie alle lezioni concerto proposte da Claudio Sottocornola. Niente di strano, la madrina Nilla Pizzi aveva insegnato molto, ma l’Italia si riconosce molto dalle e nelle sue donne della canzone. Icone, che non a caso suscitano l’interesse di un interprete che è anche storico e filosofo, e pertanto vede in esse maschere di risonanza di un tempo, di un luogo, di una civiltà, se ne appropria e con una specie di gioco di prestigio, ce ne restituisce la magia in una speculare declinazione maschile. Immagini come ologrammi, canzoni come fonti storiche, musica come storia del pensiero.
Se altrove, in altri ambiti, non avevano ancora posti importanti, le donne cantanti, infatti, potevano lanciare mode o dissacrare tradizioni, permettersi il lusso di esistere al di là delle convenzioni e tessere quella tela di modus vivendi al femminile di cui ancora oggi tanto il nostro Paese abbisogna.
Possiamo citare il cambiamento ottenuto tra “Ma l’amore no” di Galdieri-D’Anzi, cantata da Alida Valli e “Quello che le donne non dicono” di Ruggeri-Schiavone, cantata da Fiorella Mannoia: splendide voci che esprimono differenze di mode e di costumi, ma soprattutto il cambiamento di una società che si denota dalla metodicità stessa del testo. Alida Valli esprimeva la sognante donna che trovava nel marito la realizzazione del suo diventare adulta, passando dalla patria potestà del genitore maschio a quella del marito prodigo di attenzioni nei suoi confronti, per un amore che non poteva disperdersi nel tempo e non aveva altro motivo che restare duraturo per sempre; mentre Fiorella Mannoia, dal timbro più deciso ed intenso, con una metodicità assolutamente diversa e più mordente, esprime una femminilità completa, con bisogni ben più complessi ed espressi di un perdersi in un amore da Mille e una notte. A questi due testi fa da contraltare il duetto Mina-Celentano che completa il discorso perfettamente: “Acqua e sale” di Donzelli-Leomporro, al di là delle parole, esprime nella completezza delle due tonalità in simbiosi quell’estro musicale che permette di unire voci maschile e femminile creando un unisono non soltanto vocale, ma soprattutto d’intenti. La canzone, molto bella, riesce a dare il senso di un rapporto “amoroso” che va al di là dei dettami religiosi finora imposti, aprendo a quel reale tentativo di equiparazione che, ben centrato dall’accoppiamento artistico dei due mostri sacri della canzone italiana, auspica anche per la vita una sintesi simile, senza dimenticare che le differenze esistono e che rimangono malgrado si cerchi di crescere nel senso di parità che ancora non abbiamo pienamente acquisito.
Sono passati gli anni e le mode sono definitivamente cambiate nell’ordine di idee: ci si avvicina sempre più al momento “global” nel quale tutto è a disposizione di tutti e si può decidere di essere e di ascoltare quello che si vuole senza doversi per forza adeguare alle mode imperanti.
Mi piace pensare che al duetto Mina-Celentano faccia eco Ornella Vanoni con la canzone scritta da Gino Paoli “Senza fine”. Un inno d’amore senza tempo, con una melodia resa ancora più intensa dalla voce della Vanoni, capace di dare quell’intensità emotiva, quella profondità d’animo difficilmente eguagliati da altre cantanti per questo bellissimo testo. L’evoluzione femminile c’è stata: da “Ma l’amore no” che ricorda tanto la colomba cantata proprio da Nilla Pizzi, siamo passati alla consapevolezza amorosa, al librarsi verso lidi di infinita dolcezza sempre più voluti e cercati da una donna che ha seguito la sua strada. È riuscita a diventare via via sempre più padrona di sé, malgrado l’amore la faccia perdere nei lidi magici dell’immaginario e del sognante, ma non più per imposte verità misconosciute com’era almeno fino agli anni Cinquanta. Penso al duetto Mino-Lupo, quando l’amore vietato diventò capolavoro ascoltato e riascoltato milioni di volte.
E l’evoluzione artistica e linguistica che soggiace allo sviluppo della canzone, lo si ascolta, dall’infinito cantato da Ornella Vanoni, dalla voce ancora più roca, ancora più profonda di Gianna Nannini che invoca la sua “Meravigliosa creatura” con un’intensità che sottolinea i tempi nuovi. Non ci sono più finzioni, non ci sono più remore: la donna può finalmente cantare al suo uomo, all’uomo in generale, al desiderio, senza paura di essere bocciata alla scuola delle belle maniere di galateo. Si è evoluti in meglio? I gusti cambiano e di certo sono cambiati, favorendo la comparsa sulla scena musicale di personaggi di certo impossibili da pensare soltanto vent’anni prima. La rockettara Nannini non poteva certo essere pensata negli anni d’inizio Sessanta, ma ben ha rivestito il ruolo della trascinatrice delle teen-ager che non dovevano preoccuparsi d’altro che di scegliere il giusto colore dell’ombretto: per organizzarsi con un cambio d’abiti nella borsa al momento di dire alla mamma che si usciva timidamente con le amiche, ci si era già addestrate anche negli anni che sembravano più compresi nella morale comune.
In realtà, i giovani cambiano poco. Rimangono sognanti e sognatori, capaci di idee per cambiare il mondo, e a volte ci riescono pure, permettendo l’evoluzione della società o la sua involuzione, a seconda dei momenti e a seconda (molto) dei punti di vista. In ogni caso c’è sempre il sogno dell’amore, il bisogno di trovare l’anima gemella, di identificarsi in quella “meravigliosa creatura” che si potrebbe essere se si avesse accanto qualcuno capace di amarci per quello che siamo, interamente, completamente e per sempre. Sogni eterni, di maschi e di femmine, interpretati dalla moda e dalla musica, ma anche richiesti a gran voce generazione dopo generazione.
Ancora oggi, infatti, ascoltiamo con piacere il ritmo incalzante di “Cuore”, scritta da Mann-Weill-Rossi per la voce di Rita Pavone. Il battito cardiaco prevale nel rimbombo musicale e ci appare nell’immaginario il fisico mingherlino di Rita Pavone, dismessi gli abiti da monello che le erano propri, smessa la foga della domenica del calcio al quale gli uomini si dedicavano invece di stare con la propria amata, finita la pappa col pomodoro. Appare una donna bisognosa di ascoltare le proprie passioni e i propri desideri, con un classico non solo della canzone italiana, ma dei testi per canzoni. L’amore celebrato in tutte le salse, ma che acquista significati sempre più veri quando interpretato proprio da personaggi che avevano altri cliché. Il messaggio è quindi sempre positivo, ma anche il messaggio della ricerca di valori profondi, dell’anima, dell’estro creativo, della necessità di dare voce a ciò che il pubblico chiedeva come lo chiedeva. Rita Pavone è l’antesignana di Gianna Nannini, ancora morbida nei modi, ma capace di far comprendere come ormai i tempi della melensità femminile siamo finiti. Ora c’è una donna a tutto tondo che chiede di essere amata per quella che è e come vuole essere amata lei, al di là del fatto che non sia perfettamente la donna ideale. Pavone non è procace, non ha fluenti capelli lunghi, non ha la coscia lunga alla Kessler, ma è capace di quell’intensità di voce e di sguardo che incanta anche chi aveva immagini femminili ben diverse. Ci si era già abituati al “molleggiato”, certo, ma in ogni caso, se si osservano attentamente i filmati del tempo dell’esordio e del successo di Rita Pavone, è chiaro che le persone sapevano già essere più moderne e meno bigotte di quanto ci piaccia pensare quando si rispolvera la celeberrima frase “vecchi tempi”.
E allora come non pensare alla voce splendidamente interessante, ma anche all’eccentrico personaggio che è saputa essere Patty Pravo? Faccia da brava ragazza, classica biondina veneziana di buona famiglia diventata famosa al Piper, Patty era senz’altro più vicina all’immaginario maschile di donna avvenente, ma ha saputo ritagliarsi i panni di donna per se stessa, senza per forza avere bisogno di un uomo per essere davvero quella che voleva essere. Il confronto ottimale è con la bella voce di Gigliola Cinquetti e il suo mitico brano “Non ho l’età”. Scandalo, ma anche altro mito dell’amore. Cinquetti era giovanissima, dal viso angelico, molto bambina dei sogni che tutti sognavano. Patty ha saputo diventare il simbolo dell’autodeterminazione anticipando di anni e di gran lunga in stile, le moderne star della canzone internazionale, sapendo restare alla ribalta senza abdicare al suo bisogno di essere se stessa anche quando impersonava la star eccentrica e dalle mise più impensabili. Voce inconfondibile e assolutamente magnetica, ha catalizzato intorno a sé la riflessione universale, maschile-femminile; italiana-straniera con testi inconfondibili come “Se perdo te” di Bardotti-Korda. Capolavoro indiscusso, “Se perdo te” per la voce di Pravo è il culmine dell’evoluzione femminile nella canzone. Dalla Cinquetti che non ha l’età per amare e non può amare un uomo più grande di lei, alla donna che, pur con il tono serio di chi è responsabile di sé (lavora fuori casa, pensa alla famiglia, assume ruoli di potere e di responsabilità sempre più grandi), non perde di vista la sua capacità di amare e di avere bisogno di un amore accanto. Un amore non più ideale e idealizzato, ma legato ad una persona in carne ed ossa, con pregi e difetti. Queste canzoni, non dimentichiamolo, transitano anche per gli anni dei dissidi forti all’interno della famiglia e della società. Ci si interrogava sul divorzio, poi diventato legge; ci si interrogava sulla possibilità di avere altre relazioni dopo la fine di una storia d’amore importante come quella siglata in chiesa; ci si interrogava sul ruolo della donna che, ammessa alla scuola media e poi superiore, si affacciava sempre più al ruolo sociale attivo, tolta l’ultima barriera dell’essere inferiore che era stata anche dal punto di vista giuridico fino a pochissimo tempo prima. Pertanto “Se perdo te” diventa un giro di boa, il mezzo per affermare che sì, rimaneva importane il tema dell’amore che fa battere il cuore all’impazzata, come cantava Little Tony, o faceva girare come una bambola, ma che pure restava uno degli scopi della vita. Anche per quel “Pigramente signora” di Evangelisti-Fogelberg, impersonata/interpretata sempre da Patty Pravo.
Donne che crescono e assumono sempre più su di loro la propria vita, disabituandosi ad essere pedine di una realtà vera dalla quale sembravano separate. Questo non significa non soffrire più: lo insegnano straordinarie interpreti della canzone come la Mia Martini di “Piccolo uomo”, scritta da Lauzi-La Bionda-Baldan Bembo. Mia Martini non è la donna ancora un po’ svenevole de “Non ho l’età”, o la graffiante Pravo o la sicura di sé Nannini. È una donna che riveste un ruolo ambiguo, molto vicina a quelli normali di donne qualsiasi, un po’ ammaliatrici un po’ incapaci di non soffrire per amore. E qui ci lascia un indimenticabile capolavoro della canzone parlando come raramente si faceva di loro, gli uomini, quelli che feriscono, che non ci meritano, che se ne vanno e ci abbandonano. La voce strepitosa di Mia ha reso questa canzone inossidabile e ci offre ancora un altro ritratto della donna attraverso le mode e attraverso se stessa. La donna che non vuole perdere un amore, non vuole essere lasciata, non vuole mettere i panni della forte e basta, ma essere sola e indifesa, pur se di carattere, come si sente dal timbro e dal suono della voce.
Proprio qui si inserisce bene qualche considerazione sull’interpretazione maschile che dà al tono e al ritmo del discorso una nota di riflessione ben più profonda delle parole. Ad interpretare questi capisaldi della canzone italiana, le icone della nostra discografia, è un soggetto maschile che esula dai cliché dei rotocalchi, che è ben lontano dalle immagini patinate del biondo ossigenato e smorfie da vamp. Chi dà voce in questo video al senso del testo della canzone, al tempo trascorso è Sottocornola che, grazie allo studio e all’approfondimento, alle interviste e al confronto diretto con i protagonisti, al tempo stesso che è passato con le sue mode e i suoi turbinii, sceglie la sua voce per commentare, oltre che le analisi puntuali.
Cantando le canzoni scelte per la dissertazione, Claudio/Claude usa non soltanto il suo apparato vocale, ma sceglie tonalità e timbri, lasciando al roco e al profondo del prettamente maschile far cadere quella nota in più che dà il passo a tutto il discorso. La scelta non è certo di sostituirsi alle voci, di copiarle o di dimostrare diverse capacità, quanto di averle introiettate al punto da diventare cardine di confronto analitico. Il suono più graffiante o più rock spesso si addolcisce di profondità puramente personali e questo impreziosisce appunto il discorso accademico che si stempera, così, con le emozioni che suscitano ancora queste canzoni sia a chi le ha già ascoltate dal vivo ai suoi tempi, sia in chi le ascolta con la giovinezza di oggi, assaporandone un ché di nostalgico e di imponente.
Bellissimo anche il testo di “Un’emozione da poco” di Fossati-Guglielminetti, cantata da Anna Oxa. Altrettanto voce decisa, dalle reminiscenze maschili, con ampie capacità vocali. Tutto questo permette ancora una volta di dare slancio al testo, di dare peso all’interprete. Non c’è più possibilità di ritorno: siamo completamente rivolti verso una dimensione femminile che sta permeando la società sempre di più e alla quale guardano donne da ogni parte del mondo. Se davanti agli occhi c’era l’avvenente e divertente femmina dei video musicali di Freddy Merecury, casalinga tipo della società americana bigotta e poco disposta a guardare al di là del suo naso quando la questione si faceva complessa, in Italia la donna celebrata dalla canzone sta cambiando e tutto la insegue. Soprattutto la canzone. Può sembrare che la donna abbia seguito soltanto le mode, adeguandosi alle paillettes degli anni Ottanta e al tipo di trucco imposto: in realtà sono state le mode ad interpretare il cambiamento, a tratti anche dirompente, che aveva fatto seguito ad un periodo di scontri ideologici e di lotte sociali, transitate anche per lotte di piazza, rivendicazioni di parità, prorompente voglia di vedersi riconosciute. Ancora oggi, in alcune professioni di rilievo, ci sono donne che pensano di riuscire soltanto confondendo la propria femminilità in atteggiamenti maschili, quasi dovessero ancora imporsi. In realtà, pur verificando crisi di involuzione, è la donna che sta perdendo il gusto di seguire la propria indole e di trovare spazio mentale per manifestarla e realizzarla adeguatamente. Sembra ancora una volta aspettare da fuori quello che le deve venire da dentro e si riconosce ancora una volta nella donna che attende solo alla casa e al marito, senza considerare che quei tempi (per fortuna) non esistono più. Abbiamo toni nostalgici ne “La solitudine” di Cavalli-Cremonesi-Valsiglio, cantata da Laura Pausini, alla quale possiamo accostare un classico come “Al di là” di Mogol-Donida, cantata da Tajoli e Betty Curtis, non già per mode e contenuti, quanto per affinità di sentire.
Inutile pensare a dove stiamo andando. Il nostro mondo sempre più complesso trova strade spesso inusuali e intriganti, con voci interessanti e innovative, malgrado tendenzialmente “passino” con maggiore facilità di un tempo. Diciamo che oggi c’è più la ricerca della notorietà che la ricerca dell’affinamento continuativo di genere, cavalcando mode momentanee che si rendono tali per noia o per convenienza. Rimane un altro classico la bella
“Il portiere di notte” scritta e cantata da Enrico Ruggeri che, a questo punto delle nostre considerazioni, si presta bene a delineare la situazione. Chi sta a guardare non è in realtà il passivo fruitore di una situazione: è colui che lavora, che fa il suo solito dovere, ma che pure sogna, pensa, vede. Prova a immedesimarsi nelle vite degli altri, ne prova piacere o dolore, pena e desiderio. Splendida l’interpretazione, rende ancora più a fondo l’idea espressa nel testo. E sottolinea quel senso di ineluttabilità che nelle canzoni diventa teorema e paradigma, trampolino per nuove creazioni e mai disfatta introversa, quasi depressa. Le canzoni e le cantanti dovevano accontentare un po’ tutti, dalle commesse con i capelli cotonati, alle mamme dalle gonne un po’ lunghe, com’ebbe a disegnarle Bennato, alle nonne che sognavano nipotine realizzate e felici. Allora ecco le varie “tigri” e le varie “pantere” che interpretano come non mai prima l’evoluzione dei tempi, cantando le canzoni natalizie e i dissapori, il romanticismo e la fine di un amore, coinvolgendo nella riflessione migliaia di simili dalle quali le riflessioni arrivavano. Ecco che era perfetto il cliché di una artista piuttosto che di un’altra, nate e cresciute con l’intento di piacere e di fare ciò che avevano sempre sognato. La ribalta arrivava per indiscusse capacità vocali, prendiamo il caso di Mina.
Oggi la globalizzazione rende la massa indistinta, le nonne sono più alla moda delle nipoti, i capelli cotonati non sono più un vessillo, tutto è più normale, più alla portata, più libero, meno stereotipato. Non si deve più accontentare nessuno e quindi si deve piacere un po’ a tutti.
Oggi abbiamo talent show interessanti, ma nei quali diventa di moda dileggiare i maestri, dissacrare le capacità e la gavetta. Si confezionano pessimi personaggi da imitare: la supponenza non fa mai bene, anche se si ha talento e anche se si hanno ottimi polmoni. E il tutto esaurito dell’oggi lascia troppo spesso il posto al vuoto estremo del domani, occupato da rotocalchi impietosi e da noie da sviare con altre starlet del palcoscenico.
La voce femminile dovrebbe levarsi sempre più come monito a non perdere quanto si è acquisito, perché si rimane troppo indifferenti di fronte a notizie sconvolgenti che riguardano non più lo struggersi d’amore, ma lo struggersi e basta per un sentimento confuso e complicato al quale non si è educati, stemperato spesso, sempre troppo spesso, in un momento di rabbia che strappa vite e sorrisi.
Alla fine è sempre quella la considerazione: il gioco delle emozioni è sottile e sconvolgente, troppo complicato ammaestrarle, conoscerle, amarle per potersi considerare protagonisti di un LP per tutto il giro del giradischi. La magia che si va perdendo è sempre più sovrastata da scenari di massacri, talvolta reali, talvolta dell’anima che si lascia rapire da un motivetto perché fondamentalmente alla ricerca di quella magia che si porta dentro, sia che abbia avito le fiabe da bambina sia che no. La crescita che si persegue con la canzone contemporanea è la ricerca di anestetizzare il tempo, come si cerca di coprire i rumori del mondo con il tutto volume in cuffia, sapendo che la perfezione del suono è quasi totale e che se ci si stanca della stessa canzone se ne può scaricare un’altra dal computer di casa senza neanche più andare al rito del negozio, della scelta, della condivisione di una cuffia per sentire com’è tutto l’album.
Tuttavia il ruolo della canzone è fondamentale, perché la musica non solo sa guarire da molti mali, ma sa cancellare differenze in altri campi insormontabili. Gli esempi possono essere molteplici, basti pensare a come ci si riunisce in ogni parte del mondo al nome di Michael Jackson. La scelta è ampia. I maestri della spiegazione sono validi, come appunto il nostro Sottocornola, ma nella sua atipicità di critico-interprete che conferisce voce, oltre che analisi, a un testo e a un’epoca.
Grazie alle lezioni-concerto che Sottocornola realizza con modalità professionistiche e creative, si possono accompagnare fruitori trasversali alle mode, agli anni, ai gusti, a comprendere l’evoluzione dei tempi, della storia, dei fatti quotidiani del tempo (soprattutto compreso tra gli anni ’50 e gli anni ’90 del secolo scorso) che sono già oggetto di libri di testo scolastici. La canzone, proprio per la già citata funzione universale e universalizzante della musica, consente di arrivare a ricordare senza scalfire i sentori politici, che avevano dilaniato persone e ideali, senza offendere alcun punto di vista che non sia di piacere di genere. E questo non per una scelta politically correct, quanto per una precisa funzione di insegnamento a comprendere che tanto manca ai nostri giorni. La possibilità di fruire delle lezioni anche on line, consente non solo di arrivare al più vasto pubblico del web, quanto al più vasto pubblico di genere e quindi a sottoporre un’operazione moderna ma dai solidi fondamenti educativi, quelli, per capirci, che sono validi alla TV soltanto in tardissima serata.

Alessia Biasiolo

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