EFFATA’… Il nuovo invito di Claudio Sottocornola

di Ileana Maria Paloschi

Effatà”, apriti, un invito che titola le pagine di un breve saggio carico di sollecitazioni capaci di far vibrare le corde emotive profonde del lettore.

Effatà… apriti, a cosa? A chi? A quale scoperta? Non è già tutto aperto lo scibile umano? La globalizzazione, la post-modernità, non hanno abbattuto ogni velo preparandoci al dominio incontestato di ogni dimensione? Non possediamo già da tempo la spugna capace di cancellare l’orizzonte svincolando la Terra dal suo sole come gridava il pazzo nel famoso aforisma di Nietszche? Non è stata cancellata quella tensione vivificante capace di spostare gli orizzonti di senso, non è soddisfatto il desiderio che connota l’uomo e lo  accompagna a decidere di non porre fine alla volontà di conoscere e di conoscer-si?

“Effatà”, in una manciata di pagine facilmente interpretabili grazie ad un linguaggio semplice quanto penetrante, si presenta come una risposta aperta, sì aperta perché non esaurisce la domanda ma, appella la libertà del lettore per una personale riflessione.

Il movimento che mi ha indirizzato alla conoscenza dell’autore ha un andamento quasi empatico. Uso il termine movimento perché in realtà, il processo di relazione biunivoca generato da interessi comuni, ha tutta la caratteristica di un moto con accelerazione variabile la cui costante può essere identificata con gli squilli della campanella tra un’ora e l’altra, sporadici incontri al bar del Liceo o nel giardino al termine delle lezioni.

Un processo sedimentato un’intera estate per tradursi nella proposta di partecipare all’incontro di stasera.

Precedentemente l’autore ha pubblicato due raccolte di poesie. La conoscenza del suo pensiero è partita dalla lettura di questi versi, che, in quanto poesia, si presentano espressione più libera e autentica di una personalità.

Soltanto ciò che all’inizio ti lascia senza parole è meritevole d’essere espresso”[1], è stata questa la prima reazione emotiva suscitatami sia dalla lettura delle raccolte di poesie, che dall’ascolto e dall’interpretazione di canzoni indimenticabili allegate alla prima delle raccolte, canzoni lasciate libere nel loro testo e non soffocate da un’auto-celebrazione a favore di una voce che, calda e rispettosa, non ne sovrasta il senso.

A coronare il tutto, il percorso delle immagini della mostra fotografica dall’autore proposta nel 2010, “Il giardino di mia madre e altri luoghi”, fotografie essenziali, semplici, capaci di parlare allo spettatore, di generare ciò che l’opera d’arte in quanto tale deve riuscire ad innestare: una relazione, un rapporto dialettico, poiché l’opera d’arte non può ridursi a mera rappresentazione o raffigurazione.

Devo ammetterlo: il pensiero dell’autore si fa poesia e musica interpersonale, l’immagine  parla e la spontaneità e linearità dell’espressione è riuscita ad aprire quella feritoia che lascia intravedere la bellezza che appaga e provoca stupore.

Nella presentazione l’autore definisce “Effatà” “una raccolta di scritti di origine occasionale e in parte frammentaria”.

Personalmente leggo tra le righe un ben definito fil rouge che accompagna tutti gli scritti, non tanto tracciandone una trama, ma tratteggiando nettamente la personalità del “filosofo pop”, come si ama un po’ riduttivamente definirlo: ciò che era  prospettato come recensione di un testo, si è declinato gradualmente nello svelamento di una persona, un soggetto che si è fatto prossimo di volta in volta, con sicurezza e precarietà, velandosi e dis-velandosi, confutando la lontananza spaziale e temporale dagli accadimenti e, in altre occasioni, volenteroso di integrarla.

Una poesia in particolare ritengo consona a tratteggiare l’autore in modo particolarmente esaustivo.

Per me
Per me
solo amore
nell’aria
nella luce,
che non posso afferrare.[2]

In questi versi è mostrata quella libertà interiore che spinge l’autore a leggere, interpretare il mondo, la storia con uno sguardo olistico, aperto allo stupore che genera desiderio di spingersi oltre la prassi collaudata, madre di quella comoda famigliarità in cui facilmente ci si rifugia, ricercando una illusoria sicurezza capace di anestetizzare la dimensione desiderante.

Nel capitolo introduttivo[3] si da voce e corpo a quel luogo umanizzato dalla natura, reso famigliare dall’affetto, dalla cura e dalla bellezza che lo abita. Una bellezza presente nella relazione armonica dei suoi componenti, amore e impegno quali ingredienti di un’esperienza di cura che hanno permesso al giardino di essere simbolo della dimensione desiderante, dimensione che l’autore ritiene causa felice del suo avventurarsi nel mondo con fiducia. Una relazione affettiva autentica in cui il rapporto con il mondo da parte della madre, ha incarnato un significato pratico più che teorico, donando gratuitamente una testimonianza feconda.

Una relazione vera, autentica, la consapevolezza di essere oggetto di cura da parte di una donna  “che mi ha voluto nell’essere [] con una intensità totale, con una volontà creativa, con una misura e uno sforzo costante negli anni, nel tempo,  nella vita e,  nelle sue peculiarità,  diviene perciò emblema di una condizione oblativa e gratuita dell’esistenza”[4]

E quel giardino non è pietrificato, quei ricordi sono il passato ma non un passato immobile. Il tutto si declina in un modo sostanziale ed unico attraverso il quale si può interpretare il presente e costruire il futuro: l’idea stessa di passato è indotta a mutare sotto la pressione del presente che chiede di essere vissuto nella serenità per onorare il passato e chi lo ha abitato con cura.

Un giardino che è metafora, manifestazione tangibile, testimonianza lasciata di una madre che ha contribuito con cura ad educare alla vita, in un mondo in cui “viene meno ogni fondamento che fondi,  dove fondamento è il terreno su cui radicarsi e stare”[5]

Un fondamento che dona libertà, libertà scaturita da autentiche relazioni umane, come sempre nate all’interno di limiti e di eredità che ci sono lasciati da chi ci precede.

Nessuno nasce senza bagagli e se è vero che  spesso ci troviamo ad essere ciò che la vita ci ha reso e ha fatto di noi, è altrettanto vero che la nostra libertà la giochiamo nell’assumere ed elaborare ciò che siamo stati resi. Per dirla con Sartre “Io non sono ciò che io ho fatto ma sono ciò che io ho fatto di ciò che si è fatto di me”.

La consapevolezza di essere stato plasmato anche dai gesti di cura della madre, nel periodo di vita trascorso al suo fianco, è tradotto dall’autore nella quotidiana missione educativa in quanto docente.

Cura ed educazione abitano lo stesso spazio e tempo, sono soggetti che perseguono la stessa finalità: aiutare i ragazzi a ritrovare il giardino perso ed individuare la stella polare che metaforicamente simboleggia lo spazio aperto da percorrere nel segno della ricerca,  risvegliando il desiderio e lo stupore.

Individuare il proprio giardino, da cui spiccare il volo, nel quale imparare a vivere giorno per giorno, ad amare, a lavorare, a prendersi cura di sé stessi in primis e –  allargando la prospettiva – dell’altro.

Giardino che rimanda al giardino dell’ Eden, debito originario ma in senso simbolico… perché ciò che hai ricevuto gratuitamente non lo puoi ripagare, perderebbe la sua stessa essenza… puoi solo donarlo a tua volta gratuitamente

Aver cura, educare nonostante tutto, nonostante si abitino luoghi non luoghi, fedeli alla luce interiore rintracciabile negli abissi della nostra coscienza, quella capacità di autocoscienza che  Genesi chiama Neshamah, cioè capacità di conoscersi, giudicarsi, esercitare una libertà creativa.

L’autore invita a vivere il declino additandolo, non dandolo per scontato ma piuttosto utilizzandolo come traghettatore di valori.

L’approccio olistico e interdisciplinare adottato da Sottocornola per la sua personale metodologia di ricerca, modalità meglio definita in “Stella polare”[6], lancia una sfida alla modalità di apprendimento oggi prevalente che, da mera acquisizione di contenuti precostituiti in ambiti disciplinari secondo criteri statici, diviene azione d’interconnessione.

Il solipsismo potrebbe essere soverchiato da una professionalità che non segue più un percorso prevedibile, tracciato aprioristicamente nei parametri di una cornice definita.

Una progettualità che personalmente condivido a pieno titolo, perché capace di stimolare nei ragazzi quel  desiderio ridotto  ai minimi termini, nella forma mentis delle nuove generazioni tecnicamente programmate: l’uomo non è prima percepire, in seguito capire e poi volere, ma contemporaneamente le tre dimensioni; è un essere desiderante, animato da quel desiderare che trascende il soddisfacimento dei bisogni.

Merleau-Ponty afferma che non ci può essere affermazione sull’essere che non sia mediata dalla sensibilità: la percezione non è uno sguardo puro che sta davanti alla vita, ma la percezione è un’esperienza primordiale dell’uomo ed è sullo sfondo di questa percezione che nasce il sapere dell’uomo. Il soggetto di questa percezione è la corporeità stessa dell’uomo che agisce, sente ed è animato da un’intenzionalità che non necessariamente è posta sotto il concetto, è pre-riflessiva. Una percezione radicata in questo corpo che è vivente… e non è reificabile.

L’attenzione profonda alla cura, all’educazione dei giovani, ribadita a gran voce soprattutto nelle opere precedenti, da “The gift” a “I trascendentali traditi”, è fortemente motivata da questa presa di coscienza: in un periodo di sfacelo estetico e disfatta etica, di omologazione intellettuale nella logica di un tecnicismo dilagante, le pagine di questo libro accompagnano ad una riflessione personale profonda con una discrezione particolarmente sensibile.

Cura, educazione, giardini di senso, stella polare, naufragio della contemporaneità, Chiesa disinteressata alla ricerca spirituale, clero sociologo e comunicatore, non più teologico o spirituale… ma rigorosamente confessionale.  Mi trovo d’accordo con l’autore riguardo a una Chiesa che ancora fatica a concretizzare il Concilio Vaticano II, il quale ha riletto la Rivelazione non più come fonte di conoscenza delle mere norme morali ma come “evento di auto-comunicazione di Dio, evento che presuppone l’uomo come partner libero dell’Amore di Dio.”

La storia come luogo teologico in cui scrutare i segni dei tempi ed interpretarli alla luce del Vangelo, una Rivelazione che non può essere argomentata in astratto ma totalmente compresa nella storicità della sua evidenza.

La critica di Sottocornola mette in luce una sorta di rottura di memoria, una frattura culturale sicché le generazioni che oggi si affacciano alla fede, sembrano incapaci di ricevere la Tradizione cristiana, mentre quelle adulte si mostrano impreparate a fare segno, a vivere e, conseguentemente, mostrare il vero volto del cristianesimo.

L’autore, anche attraverso la filigrana di creativi ricordi personali, alieni da qualsiasi forma di scontato rimpianto, presenta come necessario il ritorno al fare memoria, e mi riporta alla domanda posta da Gesù ai discepoli: il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”, una domanda rivolta a tutti, una domanda la cui risposta ci vede tutti responsabili a prescindere dall’appartenenza, ognuno di noi in quanto uomini che una qualche fede posseggono…

Così Sottocornola in “Stella polare”[7] afferma di pensarla come i Padri dei primi secoli dell’era cristiana, che vedevano molte affinità e congruenze tra cristianesimo e filosofia e, mediante l’immagine del seme e del germe, la potenza salvifica del Logos ancora una volta è fatta agire partendo dalla trascendenza del fondamento cristologico della salvezza, non dall’estensione della mediazione ecclesiastica: la sapienza e la giustizia che si trovano presso i pagani, vanno appunto intesi come i segni e le testimonianze inequivocabili della straordinaria potenza del Logos.

Il Vaticano II[8] ha rimosso tutte le identificazioni inadeguate riguardo al Logos spermatikos: è forse necessario far memoria delle origini per concretizzare il passato prossimo di un Concilio che ha tracciato il cammino per tutta l’umanità invitandoci a leggere i segni dei tempi per uscire dalla caverna? Oppure si preferisce rimanere con le spalle contrarie alla luce nutrendoci di “ombre di umanità”, di fittizie e artificiose vite, pedissequamente trascorse ma mai attraversate?

L’autore, sia in “Effatà” che in “Stella polare”, evita  qualsiasi  tono catastrofista: la Chiesa parla proponendo più o meno ripetitivamente sempre gli stessi contenuti, ma non è ascoltata se non superficialmente, fino al paradosso di un papa applaudito e stimato più dei suoi predecessori eppure… meno ascoltato, ridotto com’è dai media e dai cattolici stessi, ad un’immagine la cui parola è spesso travisata.

Il declino pericoloso della Tradizione cristiana ritenuta dall’autore “fondante della  sua personalità”, preziosa alleata per il processo di formazione di un’armonica identità, pare originato dall’incapacità della Chiesa di tradurre il cristianesimo anche in  sapienza pratica, una sapienza che ispiri il cuore della vita degli uomini, che sia capace di dare forma alla vita cristiana quale vita bella, buona vera e giusta, un capolavoro capace di assumere  connotazione di universalità.

Se è vero che la conversione del mondo antico al cristianesimo non fu il risultato di un’attività pianificata, ma il frutto della prova della fede quale si rendeva visibile nella vita dei cristiani e nella comunità della Chiesa,  e che “la nuova evangelizzazione non la si realizza con teorie astutamente escogitate”[9], sono allora maggiormente valide le riflessioni dell’autore.

Si può  non condividere il suo apprezzamento nei riguardi del “metodo adottato  dal teologo Vito Mancuso nel proporre una teologia per l’uomo di oggi[10], ma è impossibile non scorgere la tendenza di Sottocornola verso quella  radicalità  che conduce l’uomo alla nudità, una radicalità che toglie la parola … perché l’uomo nella sua carne è già parola, è corpo che parla, la ricerca in Quella carne che Merleau-Ponty traduce con Chair, carne viva, carne così intensa da non potersi mai definire come posseduta da un soggetto, ma abitata da una possibilità di alterità: il corpo che io vivo è il corpo che io sono, quello mediante il quale intenziono il mondo.

Aver un corpo è per un vivente congiungersi ad un ambiente definito, confondersi con certi progetti e impegnarsi in essi continuamente”[11]

In questa sintetica definizione del pensiero del filosofo francese Merleau-Ponty, come non leggere tra le righe lo stupore, il senso profondo che Il giardino di mia madre ha assunto per l’autore, quel giardino fecondo che ci invita  a ricercare unitamente alla stella polare?

Questa lettura profonda del valore dell’uomo capace di un approccio al mondo  non è di pura conoscenza, manifestazione di un io nascosto ma di connivenza, ed emerge dalla lettura di “Effatà” e dalle altre forme di espressione artistica dell’autore, capaci di generare un flusso di speranza.

Allora dalle ceneri del post-moderno e dalle sue frammentazioni egotistico-narcisistiche si può riscoprire l’esigenza e l’umiltà delle relazioni e con esse lo spirito di servizio, la gioia del dono, la presenza-direi corporea-dell’altro e dei suoi bisogni, il carattere relativo dei nostri gusti e la capacità anche di trascenderli…  perché il gesto che soccorre  e che salva ha una bellezza spirituale che può permettersi di ignorare quella sensibile. Allora dall’onto-estetica all’orto-prassi , sapremo ancora interpretare il bello, ma ne avremo fatto uno  strumento del nostro amore, e se possibile questo genererà capolavori ancora maggiori… Genererà anime, uomini, comunità, polis,  mondi e cosmi attraversati dalla santità di Dio”.[12]

Una conclusione di speranza priva di illusorio ottimismo commerciabile, una speranza che è connivenza con  il mondo e mi rimanda all’icona dell’Ecce Homo caravaggesco, o del più recente Arcabas, un’icona di un “uomo vero” che realizza la sua rivoluzione restituendoci all’esistenza con la consapevolezza della “metafora che noi siamo”, mostrandoci l’esperienza della capacità di essere eversivi rispetto ad ogni idolo postmoderno… che per sua natura schiavizza.

Da qui si esce con la nostalgia della bellezza della vita, una bellezza che chiama perché è sempre il rimando ad un Altro, come se fosse una carezza di promessa… e la carezza non è mai sinonimo di possesso.

Grazie Claudio!

Ileana Maria Paloschi, Presentazione “Effatà”, Libreria IBS, Bergamo,
23 aprile 2015 (Giornata Mondiale del libro e del diritto d’autore)

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[1] Jean_louis Chretièn, “La ferita della bellezza”
[2] Claudio Sottocornola, “Nugae, nugellae, lampi”,  Dicembre 2009
[3] “Il giardino di mia madre”
[4]  Claudio Sottocornola, “Effatà”, p. 14
[5]  Martin Heidegger, “Sentieri interrotti”
[6] Claudio Sottocornola, “stella polare”, 2013
[7] pg.117
[8]  Dei Verbum
[9] Card. Joseph Ratzinger, “Guardare Cristo. Esercizi di fede, speranza e carità”, Jaca Book, Milano 1989, p. 31
[10] “Claudio Sottocornola, “Stella polare”, p.122.
[11] Merleau-Ponty
[12] Effatà, p.72-73

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