11 settembre 2001-24 febbraio 2022
Riflessione per la pace
di Claudio Sottocornola

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Si vive per anni assuefatti alla pace e – se abiti da privilegiato il mondo occidentale – finisci col considerarla un inevitabile corollario dello sviluppo tecnico-scientifico, che valuta prontamente gli utili e i danni, e, più che mai entro una struttura basata su efficienza e performance com’è quella tardo-capitalistica, presumi che nessuno si adatterà mai più alla guerra, piena com’è di dolore e disutilità. In realtà ignori, e lo ostenti, che nel mondo ci sono decine di conflitti in atto ma, come diceva Montale, se a morire è qualcuno lontano e sconosciuto non importa a nessuno. E più che altro, di fronte a immagini infernali come quelle delle distruzioni in Siria, ti ripari dietro l’alibi di storia e civiltà diverse, fanatismi religiosi e terrorismo, dittature ormai estranee alla nostra civiltà… E così le estroietti nella dimensione dell’irrealtà rinviata da uno schermo che non è il tuo mondo, ancora pulito, ordinato, paziente. Anche quando l’atrocità di un terrorismo cieco e anacronistico si intrude nella Manhattan simbolo di un pianeta forse incosciente e gaudente, ma evoluto, e ti cambia la vita e la percezione di sicurezza che prima l’accompagnava, ti appelli alla legge di una irriducibile alterità, una barbarie disumana e subumana che – ne sei convinto – non ti riguarda. Allora ti difendi, prendi tutte le precauzioni, ma ciò non è sufficiente per avvertire, di rimbalzo, un senso di appartenenza, che la vecchia, algida e agonizzante Europa non sa più suscitare in te. E l’Afghanistan è lontano: ti indigni per l’ingloriosa ritirata occidentale, lugubre presagio di un declino, ma non ti senti poi ancora tanto in pericolo. Finché, un giorno, dopo infiniti dinieghi e veementi rassicurazioni del contrario, assisti – ormai in diretta social – all’invasione russa o, più correttamente, putiniana, dell’Ucraina, e lì, sì, vedi famiglie e bambini, giovani e anziani che hanno la tua stessa cultura, visione, sensibilità, abitudini, routine, dissestati e stravolti da un’azione brutale che si giustifica e avalla solo grazie all’uso della forza che la guida e la ispira, persino nel presupposto ideologico (la grandezza russa da rinverdire a ogni costo) che ritiene di dover imporre al mondo, e in primis, all’Ucraina, senza considerare che essa non lo condivide. È, ahimè, il principio di tutti i totalitarismi, ma di fronte allo strisciante totalitarismo del tardo capitalismo consumistico e alla sua iconocrazia massmediatica, avevamo pensato che lì ci dovessimo concentrare nella critica, per sottrargli energie da recuperare nell’esercizio della vita e della sua bellezza, liberate dalla schiavitù dell’efficienza e del godimento gaudente. E invece ci accorgiamo ora che su questa scenografia di decadenza e degrado (i gentili o dissoluti di vichiana memoria), è sempre possibile ed anzi quasi inevitabile il ritorno della barbarie, dello spirito ferino e bestiale, che di quella debolezza si approfitta e, grazie alla propria forza bruta, che è però anche energia violenta, impone un nuovo assetto al mondo, riportandolo, se non a un punto 0, almeno a un punto 01, cioè analogo ma leggermente superiore alla barbarie precedente (sto sempre liberamente citando il Vico). Vico pensava che i nuovi barbari, al termine di ogni ciclo evolutivo, avessero il compito di fornire una sorta di nuova linfa vitale, che di necessità avrebbe rinnovato il destino di un mondo altrimenti esangue e infecondo, ma a mio parere aveva più in mente qualcosa di vagamente pasoliniano, come se oggi si affermasse che nell’energia di un popolo, magari ai margini e ancora preindustriale, sta un grado di autenticità ben superiore a quello delle classi ricche, colte e viziose di una civiltà in declino. E proprio da questa osservazione noi cogliamo che non può certo essere la brutalità di un dittatore iperaccessoriato di deterrenze nucleari – come le chiama lui – a rappresentare tale condizione proprio perché – al contrario – egli è parte di quel degrado e – con la guerra – ha scelto di diventarne emblema. Dunque sono invece proprio i profughi che scappano dal loro paese per affermare la vita, e i civili che si arruolano come volontari per affermare valori (come la libertà e l’autodeterminazione dei popoli) che trascendono la loro stessa vita, a incarnare il mito della rinascita evocato dal Vico con la sua teoria dei corsi e ricorsi storici. E con loro forse tutti quei migranti che si mettono in viaggio alla ricerca di un riscatto della Storia, che consenta loro la metamorfosi dalla schiavitù a quella regalità che ha poi il nome di dignità umana.E così non mi sono mai sentito tanto vicino all’Europa, a questo continente vetusto, che si dibatte fra saggezza e demenza, e che in questa catastrofica occasione ha – almeno per ora – saputo recuperare tutta le proprie energie residue, tutta la propria fragile costellazione di valori, tutta la propria gracile unità, per dichiarare il proprio dissenso, il proprio sdegno, e la propria solidarietà al popolo ucraino. Avverto al contempo anche un senso di dolente fraternità per quel popolo russo che certamente va subendo una iniziativa che in gran parte non condivide e per cui già molti dei suoi militari sono morti, immolati sull’altare del totalitarismo ideologico. Non mi sono mai sentito così vicino all’Europa – dicevo – perché ho compreso che nell’incerto e imprevedibile corso delle vicende umane, affermare valori come la libertà di pensiero e di espressione, la dignità e integrità della vita umana, l’autodeterminazione dei popoli, il rispetto e la solidarietà, l’accoglienza e la collaborazione fra soggetti diversi è compito altissimo ed encomiabile, che va difeso, tutelato, portato avanti con coraggio e passione. E tale compito un po’ si identifica con la parte migliore della nostra civiltà che, dalla sapienza greca al diritto romano, dalla charitas cristiana agli ideali illuministici, dalle lotte per la libertà fra Otto e Novecento alla resistenza ai totalitarismi nel secolo scorso, giù giù fino alle istanze pacifiste degli anni ’60, ha – ne sono convinto anche come docente – contribuito a generare, nel grande laboratorio della Storia, condizioni di umanizzazione della vita, che ora non deve tradire, ma trasmettere e continuare a promuovere per coloro che verranno, anche se per ipotesi, essi verranno da altri continenti e, sempre per ipotesi, costituiranno l’eredità di altri esseri umani, altri popoli, altre civiltà, in cui anche noi, un po’, continueremo così a vivere.Non vorrei suscitare qualche facile ilarità fra chi mi legge e – a scopo esemplificativo – dirò che sono quasi sempre diffidente per le figure e i ruoli istituzionali, e tuttavia confesso la mia commozione quando ho visto e sentito Ursula von der Leyen, Presidente della commissione europea, dichiarare con voce quasi tremante, in inglese: “For the first time ever, the European Union will finance the purchase and delivery of weapons and other equipment to a country that is under attack. This is a watershed moment” (“Per la prima volta, l’Unione europea finanzierà l’acquisto e la consegna di armi e altri equipaggiamenti a un Paese che è sotto attacco. Questo è un momento spartiacque”). Di più, confesso la mia commozione da obiettore di coscienza, che ha scelto tale opzione a livello personale quando in Italia era obbligatorio il servizio militate di leva per tutti, e la dichiarazione di obiezione comportava, se accettata, l’onere di un servizio civile della durata di venti mesi anziché di dodici, come previsto invece per il normale servizio militare. Confesso tale emozione, perché credo che l’opzione non violenta sia una scelta libera, in certo qual modo profetica, che non può essere imposta a chi debba difendersi da un’aggressione violenta che minaccia la sua stessa vita e, in questo caso, un ordine di valori decisamente superiore, come democrazia, libertà, autodeterminazione, che vanno oltre la vita stessa. E mi sembra che una donna borghese, ma anche gentile e compassionevole, come Ursula von der Leyen, debba aver fatto uno sforzo non indifferente per pronunciare quelle parole, cariche di rischio sì, ma anche di dignità e speranza per quel popolo ucraino che, abbandonato a se stesso, Davide contro Golia, non potrebbe certo difendersi con le buone parole di chi, in nome della “pace”, di fatto lo consegnerebbe a Putin.

E allora, se Ursula von der Leyen rappresenta l’Europa e se l’Europa appartiene alla costellazione tardo-capitalista, di cui sono sin troppo evidenti gli elementi di criticità che abbiamo più volte sottolineato, e che essa stessa – soprattutto in epoca pre-Covid – ha fatto propri attraverso una politica comunitaria economicistica algida e funzionalistica, come si definisce ora la nostra posizione di europei, se vogliamo restare lucidi e critici, ma anche empatici? Alla luce di questi nuovi eventi di guerra e brutale sopraffazione, che ci segnalano pericoli involutivi più grandi delle stesse distorsioni della nostra politica comunitaria, essa non può che distinguere ciò che, entro la medesima eredità europea, merita di essere condiviso, assimilato, elaborato e trasmesso, come l’affermazione dei diritti individuali, della libertà, dell’autodeterminazione dei popoli e degli individui (che vediamo così spesso negati in altri contesti, e ora minacciati dalla Russia di Putin), da ciò che invece esige approccio critico, correzione e superamento, come gli eccessi del tardo capitalismo finanziario globalizzato di cui l’Europa è parte. Ma proprio come lo schiavismo antico o la struttura feudale medievale sono stati superati secondo l’orologio della Storia e non quello degli individui, senza peraltro invalidare il patrimonio di civiltà elaborato da quelle stesse società, così il sistema capitalistico decadente in cui viviamo sarà probabilmente superato, in tempi lunghi, entro un sistema tecnologico-scientifico planetario e comunitario, ma non per questo ignaro del proprio vissuto, del patrimonio di cultura e civiltà – soprattutto a livello umanistico – che ne è all’origine. Può darsi che, in tale prospettiva, l’accumulo di capitale monetario diventi ininfluente a fronte del riconoscimento di crediti relativi a conoscenze, competenze e servizio, di cui ancora ignoriamo le modalità, ma rispetto al quale la progressiva smaterializzazione della moneta potrebbe costituire un precedente, una premessa, una condizione generativa. Bitcoin? No, forse human coin, e cioè riconoscimento del valore, lavoro, impegno della persona, a fronte della scandalosa situazione contemporanea, che vede dieci individui sulla terra detenere una ricchezza uguale a quella posseduta da tre miliardi di abitanti del pianeta. Come si vede, gli spunti di riflessione sconfinano nell’utopia, mentre la realtà dei fatti ci ripropone lo strumento efferato della guerra come barbarica risoluzione dei conflitti o, peggio, come manifestazione delle ambizioni individuali e delle loro proiezioni ideologiche.

Eppure, se vogliamo progredire verso ciò che umanamente, personalmente e collettivamente ci appare a livello fenomenologico come il meglio – il nostro meglio, il meglio che ci è qui ed ora possibile –, pur criticando le storture, le deviazioni, le perversioni di questa nostra civiltà, non dobbiamo certo tornare indietro e affidarci alla forza bruta evocata da un passato di conflitti che hanno attraversato per secoli la nostra Europa, ma guardare avanti, verso il loro superamento definitivo, certi che la guerra (anche solo grazie alla consapevolezza dei danni trasversali ai contendenti che essa provoca), sia un fenomeno evolutivamente superabile o, meglio, che il conflitto è sempre traducibile in confronto, dialettica, mediazione, sintesi, a partire dalla forza delle evidenze razionali, ma anche dell’empatia umana. Mentre dobbiamo continuare a lavorare per i diritti, la dignità, la solidarietà, il dominio sul “pratico inerte”, come voleva Sartre, per affermare quella libertà, che – nonostante tutte le difficoltà – avvertiamo come irrinunciabile e che sola è degna di promuovere una competizione umanamente arricchente e fautrice di progresso per tutti i popoli…

E mentre ci commuoviamo per la straordinaria testimonianza di dignità del popolo ucraino, così eroicamente rappresentato dal Presidente Zelenski, che diviene modello per il mondo, ci chiediamo, anche se ci appare sempre più difficile, se non sia in qualche modo possibile recuperare, valorizzare e integrare la grande esperienza del popolo russo, con la sua letteratura, musica, arte, filosofia e spiritualità, a quella straordinaria narrazione di civiltà che è l’Europa, piuttosto che vederla alla deriva di suggestioni geopolitiche ibride e incerte. Anche se la Storia ci chiederà probabilmente l’umiltà di declinare questo nostro grandioso passato entro una dimensione planetaria multipolare, che sarà un campo tutto nuovo da esplorare, una grande opportunità da cogliere, non con atteggiamento rinunciatario (perché non saremo più il centro del mondo), ma propositivo e attivo, consci che alimentando la nostra prospettiva, con tutta la bellezza della sua tradizione, aiuteremo il mondo che verrà a risplendere di più.

Bergamo, 28 febbraio-1 marzo 2022

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