Luca Catò

Come sfogliare un album di fotografie…
Come sfogliare un album di fotografie…. E vedere cambiare il volto, crescere il corpo, aggiungere una strada, sparire un prato, ingigantire ed isolarsi un albero, allungare il cemento nell’alzarsi di una casa, dilatare un quartiere, dilatare la famiglia, poi non ritrovare più un volto, e scoprirne, insieme agli altri, uno nuovo; scoprire, soprattutto che “qualcosa” si muove si affina, si definisce, scompare… Ecco: è ciò che si scorge nello scorrere le pagine di queste poesie.
Solo che la poesia è meno e più di una fotografia e, nel nostro caso, la prospettiva da cui tutto viene guardato, è quella recondita dell’anima. Qui il “decantato” del mondo, precipitato sul fondo del cuore, è canto, singhiozzo, urlo e bisbiglio, è preghiera. Qui tutto è messo a fuoco dalla parola, che definendosi si definisce, consentendoci di scivolare sopra trent’anni di storia d’Italia e di cogliere, tra le annotazioni, l’eco del mondo e lo spirito sublimato di ogni decennio.
Però, insieme al tempo, dentro di esso, mischiato alla storia, c’è dell’altro, e per capire meglio potremmo prendere in prestito, pescando altrove nel tempo, versi di un altro poeta:
…Sonavan le quiete stanze e le vie d’intorno al tuo perpetuo canto…
Così dicendo vorremmo intendere, come Verlaine, che la poesia è musica sopra ogni cosa: è sentimento, evanescenza, sogno ed è inappuntabile giungere alla verità delle cose.
…Sonavan le vie d’intorno al tuo perpetuo canto…e tu lieta e pensosa il limitare di gioventù salivi…

Nel dire ciò dovremmo, poi, tentare di ascoltare con precisione il vocalizio particolare di un canto universale, distinguere il verbo che si prepara, si rinforza e dipana, lungo gli anni, gli Anni stessi.
Ci troviamo così, di fronte ad un canto su un’epoca, raccolto dalle labbra di un uomo, che affina i sensi perchè le parole siano suoni colmi e fedeli. Essa ci raggiunge usando la sua voce. Egli le fa da cassa di risonanza, da amplificatore. Il giovane presta la storia di cui è impastato, le ferite, le titubanze, le timidezze. Le regala le mani e gli occhi. Prioritariamente usa la sua vocazione, la sua voglia di studiare e di capire.
Il punto d’origine è l’adolescenza con le sue speranze, le sue illusioni, il suo fuggire veloce e il sapido alludere allo splendore dell’esistenza.
Sì, l’adolescenza prima e la gioventù poi, sono tra i primi protagonisti di queste parole: un “lieto e pensoso salire”; salire qui significa, soprattutto, vedere la carne e lo spirito dissidenti e antonimi a se stessi, scoprirli mentre cercano un‘alleanza in un corpo, in una qualsivoglia forma giusta e pacifica.
Questo ideale del corpo si muove tra le seduzioni, i desideri, gli improvvisi slanci e le inevitabili cadute. Non a caso, a vari livelli, è iterato e fatto proprio il motto paolino, colto tra le rime del Petrarca ,“e veggio ‘l meglio et al peggior m’appiglio” .
La ricerca imprescindibile del meglio, del Bene, di ciò che non solo moralmente ma esistenzialmente è tale, assume valore preponderante nello svolgimento del percorso poetico. Da questa esigenza sboccia tutta un’attenzione anche ai dati piccoli, quotidiani della vita: dal mutare delle stagioni, all’incontro occasionale e fortuito ( il fotografo, il compagno di scuola, la macchina del gelato fuori dalla Upim, ecc.), all’approntare i “riti” giornalieri cogliendoli con gioia e novità (la colazione mattutina, il tè pomeridiano, il nodo alla cravatta, il bagno), fino a trovare in eventi scomodi e spiacevoli, come un esame quale la rettoscopia, miracolosa occasione per scoprirsi imperfetti e, perciò, perfettibili:

…mi ha dato luce provvidenziale:
ricordare che, per una parte,
noi siamo abitualmente
abitati anche da cacca,
mi ha aiutato a capire
chi siamo, ad essere
più semplice, più buono,
meno arrogante e gonfio.
E siamo tutti figli…

La raccolta, come dice Claudio stesso, è da intendersi quasi “un romanzo di formazione”. Va dal 1974 alla fine del 1993, con una pausa di silenzio dal 1984 al 1991. Occupa il periodo reale di “costruzione” di una persona, dalla prima adolescenza al termine di ciò che abitualmente intendiamo giovinezza. Il percorso lo si coglie perfettamente, ma si potrebbe opinare sul termine formazione, perché sin dalle prime liriche si avverte una precisa sensazione di determinatezza, come se una forma in nuce ci fosse già, ed essa si esprimesse, apparisse, nello sviluppo lirico.
E la forma è proprio la domanda, la richiesta, la ricerca del meglio. La si sente muovere dentro, continuamente rovistare, come nell’animo del “giovane ricco” davanti a Gesù; essa urge e preme: cosa devo fare per vivere bene? Cosa è giusto, buono e bello?
La risposta giunge a sussulti, nell’intermittente salire, scendere, cercare, scegliere, sbagliare e perdersi.
Il Claudio di queste poesie va su e giù, nella sinusoide tracciata tra peccato e virtù. Tuttavia l’immagine che egli ci restituisce di sé è di cosa umile e preziosa: polvere spessa che cresce tra i libri, albero che coraggioso taglia il selciato di un’arida periferia. Il poeta pur rimandando l’idea di una forte consapevolezza di sé e delle “faccende” del mondo, non si percepisce superiore, estraneo, intangibile, ma sensibile e corruttibile.
Così se naturalmente si sale e naturalmente si scende, quando ciò accade, dispiace di aver confuso la strada e aver perso tempo; è precisamente questo che viene denominato peccato:

Per alcuni il peccato
è passione, incentivo dell’anima.
In realtà toglie luce e speranza,
l’energia del cammino.
Resti stanco indumento
al battito del vento.

Peccato quindi da intendere come occasione persa, languido ristagnare, parcheggiare a lato invece che procedere, lesti, nel cammino.
Sembra, davvero, di trovarsi di fronte ad una specie di Canzoniere, dove la ricerca rimane il senso ultimo: è frutto del domandare, gorgoglio perpetuo nell’anima e, da lì, canto.
Le poesie hanno, come è logico, forma diversa: più ridondanti, ermetiche le prime; più asciutte, contratte e definite le ultime. Assumiamo la loro presenza e la loro successione, il loro clamore e la loro sobrietà, come un importante testamento spirituale. Grazie alla testimonianza di Claudio, ci lasciamo prendere per mano e ripetiamo la parabola dei decenni passati, procedendo fra entusiasmo e disamore. E’ utile vederle qui, insieme, le origini e le propaggini: lasciarsi coinvolgere dalle prime, tra slanci e attesa, per poi essere ricondotti a terra dal nascosto Ecclesiaste, messo nei versi a sussurrarci “vanità delle vanità”.
Non è moralismo ma esistenza che riflette se stessa.
Nei versi dell’età più adulta, nutriti d’asciuttezza, uno spirito contratto blocca ogni rigurgito di gaudio insensato, e, nello osservare attento, manifesta ancora l’intenzione di cercare un senso. Le poesie hanno comune parentela nel voler rintracciare nel piccolo, una piccola verità, menzionando il grossolano e il superficiale perché di esso si tenga memoria.
Ecco per cui, in Spot, le marche ci arrivano sillabate, sconnesse, ritagliate dall’altalenante movimento del tergicristallo, in un’uggiosa giornata di pioggia incerta.
E l’automobile, il grande simbolo della postmodernità, diventa uno degli involucri da cui osservare il mondo, in cui proteggersi dal suo assalto: è il baccello per viaggiare nel vuoto siderale; se è ancora status symbol lo è in modo distaccato, evanescente, quasi irrilevante.
Tutto, ora, si fa gradualmente meditata elegia.
E’ come se l’anima si apprestasse a svestirsi, seguisse un rito di purificazione, preparasse un prontuario liturgico per ritrovarsi; gli riesce possibile talvolta solo nel balbettio di poche parole che produce distillandole dal silenzio. Così, leggendo le poesie, anche a noi pare di sederci reggendo la tazza da tè, contemplare il diluvio passato, quello passante, e, nella noia trattenuta, coltivare la speranza di scoprire un segreto.
Non c’è più seduzione che tenga, perché non c’è vera “bellezza nel reame”: a parte i lustrini, le deviazioni, le provocazioni, c’è buio, vento che soffia, e un “pellegrinaggio” che regala solo “conforto a tratti”. A resistere, nel brodo della disillusione, cogliamo brevi e autentici frammenti, come gli anni sessanta, gli affetti familiari, la scuola e “il giovanile errore”: stanno lì come un’età dell’innocenza e dell’attesa; un vero punto d’origine e di riferimento.
Al di là delle discontinuità del tempo, dei temi e delle forme, è possibile cogliere uno spirito che unifica l’opera, un filo che la annoda e lega insieme: filo e fiato stanno nella voce e nel corpo, di un adolescente, di un giovane lungo il tragitto di alcuni decenni….stanno, in fin dei conti, nella Storia di un Uomo. A noi non resta che osservare. Cogliere il ritmo dell’insieme, lasciarci condurre da quella forza immateriale che ha preso per mano un ragazzo all’inizio degli anni settanta e lo ha accompagnato in una ricerca carica di presagi e premonizioni all’età adulta… fino a noi.

Introduzione, in Giovinezza… addio. Diario di fine ‘900 in versi, Velar, 2008

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