Il giardino di mia madre

di Claudio Sottocornola
Ho capito che la mia società – in cui sono nato e cresciuto, in cui vivo – è al suo epilogo, quando mia madre, Angela Belloni ved. Sottocornola, a 76 anni, il 28 febbraio del 2003 – di venerdì mattina presto – è stata colpita da un ictus ed è iniziato l’iter del ricovero d’urgenza: il medico curante irrintracciabile, il 118, l’ambulanza, l’attesa al pronto soccorso (4 ore), l’abbandono di quasi tutti i medici, in serata, per inizio week-end, e la latitanza degli infermieri, la somministrazione automatizzata di farmaci mal tollerati, la disconnessione dell’allarme per il fastidio che poteva procurare, l’invito spiccio – dopo – a morte avvenuta, nel cuore della notte, ad andarcene perché tanto… non c’era più nulla da fare. A posteriori, la scoperta che tutto era iniziato con una broncopolmonite acuta, mai diagnosticata dal medico che l’aveva visitata, il lunedì mattina, e che l’avrebbe potuta salvare.

Ho capito che mia madre, con i suoi 76 anni ed una serie di disturbi (cardiopatia, diabete, ipertensione arteriosa…) non era un soggetto penalmente rilevante per i medici ed il sistema che l’aveva in cura. Qualsiasi cosa fosse accaduta – e che di fatto accadde – sarebbe stata giustificata dal suo precario stato di salute pregresso. Paradossalmente, tale stato pregresso, invece che essere occasione di raddoppiate attenzioni, legittimava un tenue disinteresse, un “abbandono”, direi quasi “cinicamente” un lasciar fare… all’ordine “naturale” delle cose (l’esatto contrario di quanto si suol definire come accanimento terapeutico)…, che di fatto produsse la morte di mia madre, una donna che il giorno prima ancora cucinava, leggeva, lavorava in casa, ci dava affetto e conforto e trovava persino modo per esercitare (nonostante cuore e diabete) una attività di volontariato e assistenza ad anziani e indigenti, che confortava e aiutava con visite, sorriso e consigli.

No, questo non importava al sistema sanitario che l’aveva in consegna, efficientissimo a rilasciare comunicati e interviste relativi alle presunte azioni di “eccellenza” dell’“azienda”, a cui è sensibile il sistema dei media e della comunicazione, e che determina un forte ritorno di credibilità, d’ immagine e forse sovvenzioni.

Dopo di ciò è cambiato il mio sguardo verso la società in cui vivo, che si dibatte così spesso tra farsa, ipocrisia, volgarità morale… Ho incominciato a rimpiangere quelle talvolta poco gradevoli suorine che circolavano negli ospedali della mia adolescenza, la loro militare dedizione, la esasperata pulizia di letti, corsie e toilette, le loro – sobrie, austere, severe – parole buone a malati, parenti, morenti. Mai avrebbero parlato di pizze in corridoio mentre una donna rischiava di morire in camera, mai avrebbero in tale occasione reclamato o fatto spallucce per una richiesta d’aiuto o un consiglio. Mai.

Ma tant’è, mia madre con la sua morte – grazie al cielo un padre cappuccino è passato a pregare e a portarle l’Eucaristia, che lei ha volentieri e consapevolmente ricevuto – mi ha fatto il suo ultimo grande dono, segnalandomi l’abisso in cui siamo precipitati. E per contrasto. Perché lei è stata la donna, l’essere umano, che mi ha voluto, che ci ha voluto – me e mia sorella – con una intensità totale, con una volontà creativa, con una misura e uno sforzo costanti negli anni, nel tempo, nella vita, che mi lascia esterrefatto. Sì, perché senza di lei, senza la sua volontà, non sarei – non dico nato, ma proprio non sarei. Mio padre, che mi ha altrettanto amato, si è precocemente ammalato, ma questo, lungi dal deprimere mia madre, le ha regalato energie raddoppiate per tenere vivo il fuoco, il calore, l’energia, tutto l’amore che una famiglia doveva avere – di cui aveva bisogno – di cui i figli avevano assoluta necessità. E lei ci è riuscita, giorno dopo giorno, anno dopo anno, perdendo sempre un po’ di più la sua salute, spendendo sempre un po’ di più la sua energia… la sua vita. Spesso fra la discreta indifferenza di quanti indifferenti non avrebbero dovuto essere, e che pure non riuscivano a toglierle coraggio, fede e speranza.

Sentirsi così fortemente voluti nell’essere è un’esperienza unica. Che lei ha realizzato in noi. E quella luce che ci ha trasmesso con la sua vita io – dopo la sua morte – ho creduto di vederla materializzata e – quasi – rappresentata, in quel piccolo giardino, quelle poche piante tra esterno e interno, che lei si è sforzata, con pochi mezzi, di curare e fortificare… tanto che quei pochi metri quadri di erbe, piante, fiori, strappati al cemento che sembrava volerli inghiottire, mi si presentano oggi come il suo testamento più tangibile, la testimonianza che amore e impegno possono trasformare in pura armonia e luce ogni condizione, ogni confine, e configurano un ambito in cui tutto splende e risuona di vita e di amore – un giardino, appunto: il giardino.

Il giardino di mia madre è ancora lì, piccolo scampolo di terra, che cresce e soffre col passare delle stagioni, ma che attesta la possibilità di lottare contro il cemento e il grigiore, l’appiattimento, la banalità, e segnala la presenza di una luce – silenziosa ma accecante – che mai tramonterà.

Ho cercato – quasi nevroticamente – dopo la morte di mamma, di fissare la luce e i colori di quel giardino, il mutare delle stagioni in esso, ma da quel giardino il mio sguardo, il mio passo, il mio mondo si è esteso ad esplorare altri luoghi che dalla luce di quel giardino hanno a loro volta ricevuto armonia e vita, e anche quelli, grazie a mia madre, ho potuto attraversare con fede e coraggio quanto basta: il mare, l’America, l’inverno, il Sud, i luoghi dell’infanzia, le città del mondo…

Ma senza quel “giardino”, senza quelle ortensie e quei fiori di San Giuseppe, senza quei pini, quelle poche rose, quelle ginestre e quegli oleandri, quelle azalee e quegli ibiscos, quelle malve e quei non-ti-scordar-di me, quei cipressi, quel muschio e quelle bocche di leone, quelle primule e quei ciclamini, tutto quel verde, e gli uccellini che vengono a cantare e a riposarsi dei loro voli… mi sarei mai avventurato nel mondo?

E da questo giardino mi piace – è motivo di conforto – andare quando posso – quando riesco – al Camposanto dove riposa mia madre, insieme a mio padre. A lei, a loro, amo portare – e più spesso ancora lo fa con cura mia sorella Augusta – dei fiori, i fiori che lei ha sempre amato. Ed anche in “quel” giardino respiro un messaggio – gli uccellini cantano, i visitatori pregano e si raccolgono, le stagioni si susseguono, pioggia, vento e neve trasformano tombe e paesaggio. Il tempo e forse l’eternità invitano – sembra di sentirne la pace – a pregare, a perdonare, anche coloro che quella notte – e molte altre – si muovevano – e molti altri giorni si muoveranno ancora – in quella corsia d’ospedale dove è morta mia madre, nelle tante corsie d’ospedale dove tanti continuano a morire, come nelle strade e nelle case, nel mondo, fra la colpevole e quotidiana indifferenza di molti.

E non è un caso che oggi quel “giardino di mia madre” coltivi con cura e amore mia sorella Augusta, come in un provvidenziale passaggio di consegne di un’anima a un’altra, in quell’armonia che sembra attestarci la suprema bellezza di tutto ciò che non si può vedere.
E che queste semplici foto vorrebbero aiutare a ricordare.

Il giardino di mia madre e altri luoghi, Introduzione al percorso per immagini

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