“Eighties/80′s”: una favola mitologica e premonitrice

di Luca Catò

E’ il 1981, Claudio ha ventidue anni, è convalescente da una malattia e dalla
luttuosa scomparsa del padre.
Non è possibile, in nessun modo, prescindere dal contesto, ogni prospettiva ne
verrebbe falsata.
Quindi: è il 1981. Siamo sulla soglia dei “favolosi” anni ottanta e già da subito
ne odoriamo il profumo, ne ascoltiamo l’incanto. Il clamore si avvicina
sedizioso. Ci attornia con l’esperto vocalizzo delle sue merci, dei nuovi status
symbol, degli elegiaci ammiccamenti alla natura, dell’invasione nel privato,
delle aspirazioni al lusso, alla bellezza, al presenzialismo.
Edonismo, nessuna idiologia.
Revanche e conquista: un posto al sole per ognuno e, meglio ancora, un sole
privato per ciascuno.
Ma è tutto in nuce, siamo solo sulla porta, è solo il 1981.
C’è per ora una vaga ed equivoca promessa.
Scorrendo queste immagini la sensazione è vivissima. Le tavole sono cariche di
forte sensualità, straripano di colori e profumi. Sinteticamente ci regalano il
“manifesto” di un nuovo programma esistenziale, dove l’estetismo è arruolato
dall’economia, e dove il primato dell’economico fa le sue esercitazioni per
arruolare e sottomettere la vita. E’ difficile osservarle e non ritrovarsi sedotti,
pronti a metterci la firma, a dire “anch’io!”.
Del resto così, è poi accaduto e sta accadendo.
Questo è il primo e indiscusso pregio.
Le tavole ci lasciano la possibilità di guardarci, di capire l’origine di questa
grigia, contemporanea, deriva. E’ stato un canto delle sirene a cui nessuno è
riuscito a resistere, perché era davvero impossibile farlo. L’orchestra aveva per
un paio di decenni provato a suonare, ma ora il concerto era pronto e gli
orchestrali esperti. Si era fatta piazza pulita delle “fedi” e delle idiologie, e
anche per quanto riguardava le idee, il pensiero, o sapeva cantare, e
possibilmente farlo in rima, o era meglio tacesse.
Ancora adesso, di fronte a questa compressa sintesi, si prova un ammaliante
piacere… non c’è dubbio! Ma l’amarezza fa da bordone, e la nostalgia è il colore
di fondo: promanano dalla carrellata delle immagini; suonano sul fondo di ogni
cosa.
E’ l’altro indiscutibile pregio.
Il ricordo di un’innocenza perduta, la certezza di essere transitati per un
salubre bivio, regalano un fertile dispiacere. E la natura, presente in alcuni
ritagli, ciò che più è avvicinabile al titolo di quest’opera (canto delle creature), è
la voce più alta e autorevole… da questa prospettiva, la più malinconica.
… Ma qui ci sono solo i germi, è solo il 1981.
E Claudio ha ventidue anni, è reduce di una malattia del corpo e di una dello
spirito.
Dobbiamo provare a vederlo, mentre taglia, seziona, incolla, sovrappone, preso
da un rito intenso che lo assorbe, lo trasporta e lo guarisce. Bisogna dare
credito a questo ideale ragazzo che fu Claudio; concedergli fiducia e lasciarci
portare nell’happening creativo che ha dato vita all’opera. Non è cosa di poco
conto. Possiamo sentire l’energia, l’accanimento. La voglia di cercare
distillando, di scoprire premendo e sommando; di incantarsi isolando, di
vivere, essenzialmente vivere: vivere cantando!
E’ lui il canto delle creature. Tramite l’artista il creato, quello del 1981, ci
raggiunge usando la sua voce. Egli gli fa da cassa di risonanza, da
amplificatore. Il giovane presta il corpo, la storia di cui è impastato, le ferite, le
titubanze, le timidezze. Gli regala le mani e gli occhi. Prioritariamente usa la
sua vocazione, la sua voglia di studiare e di capire.
La fonte principale a cui Claudio si affida è il rotocalco, e la sua, sebbene il
metodo sia apparentemente decostruttivo, è una ferma volontà ristrutturatrice.
Si percepisce, valutando i singoli sipari, un desiderio di ricostruire, di
rintracciare un senso oltre all’apparenza, una luce che, immanente, collega
ogni cosa.
A questo punto è importante capire l’origine perché l’inizio non è indifferente e
non è trascurabile. Tutto comincia per caso…
E’ una piccola deflagrazione che dà l’avvio. Il processo si innesca da un dono
giuntogli d’Assisi: un’immagine di San Francesco, un’icona di Cimabue.
La sacra rappresentazione, su una tavola così asciutta ed eloquente, organizza
intorno a sé tutto il know how, e con la forza primitiva del suo linguaggio
orienta e riordina gli stimoli che giungono dalla pop art e soprattutto da
Warhol.
Uno sostiene e indirizza l’altro. Il sacro, come ipotesi di indagine, si appoggia
nella sua azione ermeneutica agli strumenti della comunicazione di massa. In
virtù, però, del carattere del seme iniziale, il lavoro non è mai dissacratorio,
mai critico, mai ostile. Ogni quadro emana un senso di gioia, un anelito
all’ordine e, nell’incontenibile disordine, un desiderio alla festa… gaiezza, gioia,
espansione e, in pieno spirito francescano, lode! In ciò è principalmente
differente dalla pop art e dall’informale che sono i mondi artistici di riferimento
per Claudio.
Siamo perciò davanti ad una lauda moderna, assolutamente religiosa, animata
da un’autentica, permanente innocenza. Il carattere dell’artista, il suo destino,
sono certo l’elemento di maggior continuità. Anche ad un’analisi più
strettamente formale notiamo una resistenza a deformare e a corrodere, c’è
voglia di salvare, di accomodare con cura, di comporre. E’ un’operatività più
vicina ai collages del protocubismo di Picasso e Braque che ad un decollage
alla Rotella. Qui i singoli ritagli sono gli elementi sintagmatici di un trattato, e
il discorso, a me pare, conti più della singola parola.
Ecco dunque: l’analisi del contesto ci aiuta a precisare le preziose antinomie
contenute in questo lavoro. Ci obbligano a rivedere, a ripercorrere e
confrontarci, come sempre accade, con una vita di un uomo, in un punto
preciso del suo cammino. A noi non resta che osservare. Passare in dettaglio i
dettagli. Cogliere il ritmo dell’insieme, lasciandoci condurre dallo spirito, da
quella forza immateriale che ha preso per mano un ragazzo all’inizio degli anni
ottanta e gli ha sussurrato una favola mitologica e premonitrice.
Che peraltro egli forse continua a narrare nelle sue ricerche, tra musica,
immagini e filosofia.
C’è da ringraziare per l’occasione offertaci: abbiamo la fortuna di guardarci allo
specchio, acquisirne brandelli di consapevolezza, e chissà?… forse di
riprogettare e di progettarci.

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