Ho sempre avvertito il fascino dell’essenzialità. E nella musica, da adolescente, questo ha voluto dire l’occhio di bue sulla piccolissima Edith Piaf e la sua teatrale, ingenua e mirabile gestualità, o la magnetica presenza scenica di Charles Aznavour, ma anche il carisma della Pavone anni ’70 nel suo repertorio internazionale, accovacciata sugli assi di un palcoscenico e illuminata da un riflettore che ne ingigantiva l’ombra… Sì, ho sempre diffidato di meccanismi hollywoodiani, effetti speciali e abiti di scena. Tutto ciò che è grezzo e in divenire, che reca in sé l’impronta di una qualche sublime imperfezione, mi ha sempre inquietato e attratto più di qualsiasi patinata bellezza, di qualsiasi stupefacente cliché. Forse per questo non vado d’accordo col pubblico di tendenza, con i mediocri puristi che si affidano agli standard, con quelli che cercano complicità e facili seduzioni…Evviva la sgradevolezza, il rudimento e il kitsch, al limite il mostruoso se ci riscatta da una concezione piatta ed edulcorata della natura e dello spirito, versione per eterni minorenni della vita…E moralisticamente ancor più ho diffidato: diffidato di costose macchine per fare spettacolo, siano esse cinema, musica o televisione, dove il valore dipende solo dal denaro investito, e poco è comunque tanto, troppo, assolutamente inaccettabilmente troppo, e comunque troppo poco per coprire il niente che sta sotto, dietro e davanti. Ma che pure consacra gli artefici del nulla alla fama, alla consacrazione, alla gloria…
Fortuna vuole che, pur essendo sempre stato affascinato dall’invenzione e dal sogno, e avendo incominciato a lavorarci ancora adolescente, la decisione di farne comunicazione sia maturata molto tardi, in età più che adulta, e quindi ormai al riparo da banali escamotage e avvilenti compromessi con l’idea; sì, davvero sono restato libero dalle convenienze del successo o della popolarità, per natura alieno e inetto rispetto a quelle dell’economia, e quindi nell’insieme libero e marginale, forse anche creativo… Vivere ha significato lavorare, e nel mondo di oggi se si hanno certi interessi si lavora come docenti nella scuola che ci ritroviamo: fra le altre cose la Filosofia, che è la mia disciplina, mi ha insegnato a non smettere mai di indagare perché “Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta” (Platone, Apologia di Socrate) ed ho imparato che non è sufficiente “cambiare idea” per crescere, ma è molto più importante “cambiare metodo”. Così, in tempi diversi, ho imparato a usare la parola nella poesia come strumento privilegiato di indagine (quelli eran giorni…), ma anche la meditazione spirituale e l’immagine, la riflessione filosofica e, finalmente, la musica (il primo amore non si scorda mai…), con lezioni multimediali, studi in sala di registrazione e lezioni-concerto dal vivo.
Mi sono chiesto se ci fosse giustapposizione o sintesi fra questi interessi, ed ho concluso che in nessuno posso prescindere dal mio essere “filosofo”, perché tutto mi appare un mezzo per esprimere la mia “visione” del mondo, un’occasione per interpretare la realtà, ed ogni atto creativo che riesco a materializzare in una qualche opera mi appare una scintilla dell’energia universale, che chiede la mia parte, il mio contributo. E spero che un giorno sarò grato del lavoro svolto.
Non sono Narciso, ma queste motivazioni, individuali e personali, potrebbero apparire sfocate rispetto al progetto che vado a presentare. Vi spiego perché non è così o, anche, perché è bene che sia così. “Gli insegnanti dovrebbero agire soprattutto attraverso ciò che sono, chi e che cosa sono, e non attraverso ciò ‘su cui parlano’”, scrive Rudiger Safranski nella sua celebre biografia di Heidegger, e non ha torto se pensiamo ai grandi maestri antichi, da Pitagora a Socrate, da Platone ad Aristotele, che condividevano la vita con i loro allievi, o alla dimensione collettivistica e corale dell’insegnamento nelle grandi Università o Abbazie medievali. Oggi questo si è perso, ma non nascondiamoci dietro a un dito: ognuno dà quello che ha…
E allora ecco che la musica per me è stata la cartina di tornasole di questo assunto. Intanto, se non avessi fatto musica, oggi non penserei come penso, avrei un’altra etica, un’altra struttura mentale, un’altra sensibilità, perché la “verità” che andiamo scoprendo dipende anche dai mezzi che usiamo per indagarla. E la musica mi ha dato duttilità, capacità di mediare sfumature contrastanti e sentimenti anche contraddittori entro la medesima nota, e quindi capacità di pensare in modo aperto e non dicotomico, dialettico e non contrappositivo, post-ideologico e non dogmatico. Ma la musica è stata anche la metafora del mio modo di intendere l’educazione, la cultura, la comunicazione e più in generale la vita… Mi confidava pubblicamente una collega di Filosofia disoccupata che lei, sì, in età giovanile aveva inseguito sogni e motivazioni, ma ora si ritrovava laureata in una disciplina che non poteva praticare e, per giunta, troppo matura per intraprendere una’altra occupazione, ed io le rispondevo (perché ero il conferenziere e lei si aspettava una mia risposta…) che insegnare filosofia non vuol dire fare filosofia, che le occasioni per “essere filosofi” possono essere innumerevoli, dobbiamo solo inventarle, come fecero Galilei, Shakespeare, Wittgenstein e Sartre… E ancor più spontaneamente mi è sembrato appropriato proporle la mia esperienza musicale: anche se da sempre ho amato la musica, e soprattutto la sua dimensione scenica e teatrale, interpretativa e vocale, la professione di docente di Filosofia, e poi di scrittore e giornalista, sembrava allontanarmi istituzionalmente e irrimediabilmente da una sua pratica pubblica e ufficiale, e invece il mio “colpo d’ala”, se permettete, è stato di trasformarla in una diversa modalità comunicativa, traghettandola dalla dimensione dell’intrattenimento e dell’evasione a quella della comunicazione di saperi, di esperienza formativa, o semplicemente di performance live con tutti i link estetici, esistenziali e sapienziali che ciò può eventualmente comportare.
Prima sono nate le lezioni multimediali sulla Storia della canzone italiana, con apporto di immagini storiche di repertorio, interviste e analisi di testi (dal 1992); poi sono andato per qualche anno in sala di registrazione per studiare i brani storici della canzone, rileggerli alla luce della contemporaneità e mixarli, e ne ho tratto un concerto virtuale (i tre CD e il DVD video della serie “L’appuntamento”, 1994-2001); infine ho deciso per pubbliche lezioni-concerto con il pubblico più vario e vero: quello di Terza Università, gli studenti dei licei e i giovani, il pubblico adulto degli Auditorium e del Centri Culturali. Ho alternato reading delle mie poesie alla interpretazioni di brani simbolo, affrontando temi come “i teen-agers di ieri e di oggi”, “i cantautori”, “l’immagine della donna nella canzone italiana”, “gli anni ‘60”, “i decenni della nostra Storia”… Ho sempre utilizzato una tecnologia essenziale, che ritengo pasolinianamente più autentica e popolare di sofisticati divertissement da conventicole di iniziati: del resto l’unico modo per affrontare un repertorio totale, assolutamente vario e divergente, per me insegnante non potevano che essere basi standard, e per ragioni contingenti il formato midi era il più comodo e accessibile. La base doveva per forza essere, date le circostanze, come un foglio di carta bianco su cui scrivere, e se alcuni penseranno che questo diminuisca il valore dell’esperienza, altri capiranno che la rende invece più difficile e preziosa, intanto perché interpretare su di una base standard esige maggior inventiva che non su di un arrangiamento pensato per la nostra voce, le nostre doti e i nostri sentimenti, poi perché una tecnologia più essenziale dovrebbe stimolare ad andare dritti al centro della cosa, che è l’interpretazione. Non si creda che, considerato il circuito alternativo a quello di mercato e consumo in cui si muove il mio “fare musica” – del resto correlato al mio “fare filosofia” e “didattica” – voglia chiudersi nella dimensione storico-esplicativa… no! Io vorrei che i miei studenti, il mio pubblico, gli utenti delle mie lezioni-concerto, imparassero anche dalle mie dissonanze, dall’uso a volte antinaturalistico o distorto della voce e della gestualità, una voce e una gestualità che vogliono esprimere le ambiguità e le asperità del presente (senza cadere nel manierismo degli interpreti decostruttivi), o anche imparassero dalla semplice dimensione atipica della proposta, che vuol essere lezione e, insieme, espressione, manifestazione, “visione” appunto, sulla linea di quello spectaculum che Hans Urs von Balthasar, grande teologo della bellezza, individua come più specifica modalità di manifestazione di quanto in genere poniamo sotto la categoria del divino…
E non si creda alla diffusa e facile identitificazione fra quel divino e i divi che lo spettacolo del mercato tende a proporci, anzi a venderci come univocamente idonei a rivelarlo: artisti di strada, pianobaristi e zingari, pastori sardi o vecchie star al tramonto, come cantautori incompresi e interpreti dall’immagine improbabile talvolta sono veri ologrammi dell’Assoluto nascosti dentro il buio di un locale, il grigio di una periferia, o il solco di un vinile che nessuno ascolta più… A tutti costoro dunque desidero mescolarmi nel condurre la mia vita di lavoro, fra musica, scrittura, insegnamento e visioni, a tutti costoro dedico il titolo di questo “work in progress”, che è l’archivio in costruzione delle lezioni concerto tenute sul territorio dal 2004 al 2012: “Working class” dunque, perché è questo il nostro marchio di nobiltà, il nostro blasone, il nostro portare il peso del quotidiano sul territorio, nelle scuole e nei luoghi dell’impegno, mentre la Storia continua a generare se stessa…. Dedico altresì “Working class” al grande amico Eric Chiang, che mi inoltrò ai segreti del Greenwich Village negli anni ’70, e che ho perso di vista…
Bergamo, 18 marzo 2012
Claudio Sottocornola, “Working Class” – Presentazione, 2012