Francesca Grispello

Il gesto dell’immagine
Quando mi sono trovata dinanzi le bozze del testo che avete tra le mani, mi è balzata in mente una frase di un filosofo a me caro, Maurice Merleau – Ponty: “L’arte non ripete le cose visibili, ma rende visibile”. A mio avviso quest’affermazione può ben riassumere – e non chiudere – il percorso artistico di Claudio Sottocornola.
In Giovinezza… Addio avete sfogliato un album di fotografie evocate dalle visioni intime ed universali di Claudio e non vi erano immagini, tutto era composto affinché la percezione e la sensibilità di ognuno ne liberasse il senso nascosto.
Ora, sfogliando Nugae, Nugellae e Lampi, accade qualcosa, perché le immagini ci sono e siamo investiti da sensazioni ed emozioni che spalancano l’anima verso un istante eterno, verso ciò che è stato ed è per me; si penetra in un rettangolo dove non c’è un lato nascosto, ma l’evidenza di un visibile che, se pur indeterminato, mosso, a colori, in bianco e nero, interno o esterno, ritrae un ambiente familiare.
Il filosofo del pop, instancabile uomo di cultura, amante delle icone del tempo, alla ricerca del senso delle cose, è cosciente che le arti sono uno strumento privilegiato per cogliere le essenze, e il suo lavoro lo dimostra, ma sa anche bene che l’essenza è nell’atto performativo.
Il gesto che accompagna lo scrivere dello scrittore, il dipingere del pittore o il fotografo nel suo osservare con un occhio solo è muto, manca a se stesso: il gesto è un presente che conserva e rimodula tutta la storia; questi gesti indicano uno spazio pieno e allo stesso tempo vuoto perché c’è sempre una superficie da riflettere.
In quest’opera Claudio compie un salto, non sono collage artefatti e composti quelli che vedrete, ma istanti dedicati al tempo, quegli stessi haiku che vi evocheranno amarezze e lacrime di cielo rimetteranno in discussione tutto.
Il silenzio, nucleo di ogni grammatica, ci costringe a guardare fuori per un respiro dopo aver letto: “La luce tremula, la linea, dannata linea mai tagliata sempre persistente eppure assoluta – come lama – all’orizzonte”, datata 9 febbraio 2003. Ci sono giorni in cui non vorremmo più parlare, giorni che amiamo per il loro silenzio e notti in cui dobbiamo esplorare il sentire per scalfire il giorno denso di parole; è un bisogno che si avverte come indispensabile, come nello Zarathustra dove Nietzsche riesce ad evocare il senso dell’individuo: “… pienezza abbagliante è una coppa di luce che vuole ancora vuotarsi. Perchè la vita è sempre più di ciò che è ed il continuo superarsi del vivente non è che l’attività stessa della volontà di potenza”.
Esplorando questo lavoro, il nostro ci appare come coppa che sente il bisogno di svuotarsi, contenitore dei possibili, li afferra secondo una affilata sensibilità e ce li ordina con il caos e la ricchezza più sincera.
Questi lampi sono dei passi di un percorso più ampio di liberazione e di accoglimento, il tempo della maturazione è sempre come orizzonte che non si avvicina, ma ti guarda con lo sguardo di sfida che Claudio accoglie e rilancia con potenza.
Il tempo che scorre ci scopre diversi e tutto il suo ordine qui è ricomposto, non si è mai contemporanei a se stessi e ciò che si era un tempo non è altro che una diversa declinazione di uno spirito, che di velo in velo, cerca una realtà.
L’uomo che ruba l’inverno al giardino, l’uomo che alza gli occhi dalla scrivania e osserva il fluire del mondo, l’uomo che scopre ed è scoperto dal mare è quello stesso uomo che cerca, per il tramite del poiein, uno spazio sacro che riproduce e taglia un angolo di mondo per riempire un vuoto.
Il riferimento alla madre di Claudio è un atto d’amore e dedica, per quel vuoto eterno che genera l’assenza di una figura che per definizione colma il vuoto, ed ecco la casa, la sorella e quel giardino che è madre feconda, anche d’inverno, serena e terrestre, eterea e inaccessibile per quel mistero naturale che è forza di vita.
“Come sono caduto lontano”, recita nel ’94; “senza remi” più avanti, “nella luce che non posso afferrare”, continua: non si può afferrare la luce, ma solo intuirla, è la luce a scrivere e noi possiamo solo tentare di leggere quel che istoria…
Leonardo da Vinci nel Trattato sulla Pittura afferma: “L’occhio, che si dice finestra dell’anima, è la principale via donde il comune senso può più copiosamente e magnificamente considerare le infinite opere di natura”. La pittura per Leonardo è partorita direttamente dalla natura, quindi capace di riprodurre tutte le realtà visibili, “la pittura si estende nelle superficie, colori e figure di qualunque cosa creata dalla natura, e la filosofia penetra dentro ai medesimi corpi, considerando in quelli le lor proprie virtù, ma non rimane satisfatta con quella verità che fa il pittore, che abbraccia in sé la prima verità di tali corpi, perché l’occhio meno s’inganna”. Leonardo ribadisce il primato della pittura perché considera l’occhio e l’immagine i mezzi più capaci di rappresentare il proprio contenuto in maniera simultanea e non successiva, come nella poesia e quindi nella parola. La pittura, quindi, è l’unica forma di comunicazione più immediata delle realtà visibili. Il bisogno di comunicare possiede l’uomo fin all’interno della sua struttura, “anima e corpo” sono sempre proiettate verso un fuori: ex-sistono; “anima e corpo” dicono sempre qualcosa, sono sempre rivolte verso un altro; anche nella solitudine e nel silenzio – soprattutto nel silenzio.
Le parole e le immagini che ci sfiorano ci conducono verso un mondo che lo sguardo dell’autore nella sua ripresa creatrice, nelle sue operazioni espressive, non pretende di rappresentare oggettivamente, ma a cui vuol donare uno stile e di cui vuol cogliere un’anima.
Queste visioni del singolo, con prospettive raccolte da occhi diversi e da autori diversi, contribuiscono a formare una costellazione di senso unica, indifferenziata e mai compiuta. Tutto ciò che ci viene presentato è situato in uno spazio completamente oggettivo, lineare, chiaro ed evidente: ciò che si mostra non è una serie di situazioni affiancate ad altre, ma in realtà, esse sconfinano le une nelle altre: manifestando una solidarietà con ciò che mi riguarda, con il mio corpo, la sua profondità e la mia partecipazione. Una silente evidenza capace di contenere il gesto e il rumore del mondo, che non appartiene alla voce di nessuno, esso è ovunque… in nessun luogo.
Nugae, nugellae e lampi è un porto dove Claudio Sottocornola ci intrattiene ristorandoci, possiamo rimanervi, affascinati dagli abitanti e dagli scenari che un punto di congiunzione con il tutto (come il porto può essere) può celebrare: il nostro ci rivela che questi punti di connessione esistono se messi in relazione, ma bisogna ripartire.
Un progetto questo, spiega l’autore, che è parte di una storia che avrà altri mezzi e supporti per rappresentare storie che potranno essere riprodotte all’infinito, ma hanno avuto luogo solo una volta. La mostra interattiva Il giardino di mia madre e altri luoghi sarà un altro porto, altra stazione per un altro divenire.
Ed è nella narrazione che possiamo risolvere, riscattare, alleggerire l’esistenza, far circolare il senso, navigare con un compagno e le sue visioni, osservare il cielo stellato da prospettive apparentemente inconciliabili; siamo creature che contribuiscono a formare una costellazione unica, indifferenziata e mai compiuta.
Porto di terra, di acqua, di profumi, di sguardi, di neve e lacrime, fatto di elementi semplici come l’esistenza e ricomposti con il bisogno più vitale di sfrondare la complessità per raggiungere le vette sublimi della nudità.
Claudio in queste nugellae si mette a nudo, si svuota e si mostra ed è per questo che si nasconde ed è altrove in questo bagaglio di tempo che non è più nascosto in un possibile, ma è qui, per noi. Stagioni della vita, bianche di neve, fredde e bagnate, ma non meno accoglienti del mare che scopre un uomo che guarda a riva, specchio di una memoria, non serialità di ricordi, perché in essa abbiamo modo di rifletterci.
E da quel riflesso può scaturire altra luce, per altre storie.

 Introduzione, Nugae, nugellae, lampi, 2009

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