di Lidia Zitara
E come tutte le più belle cose, vivesti solo un giorno, come le rose…
Il giardino è essenzialmente una struttura. Ma di cosa? Prendete una qualsiasi delle teorie estetiche che parlano di giardini e otterrete la spiegazione che un giardino è un’articolazione nello spazio del nostro rapporto con la natura.
Credo che in ciò risieda inconsapevolmente una forma di miopia, un modo parziale di affrontare l’argomento. I teorici del giardino si affannano tanto sullo spazio trascurando la quarta dimensione, quella “asintomatica”: il tempo. Se i giardini sono un’articolazione nello spazio, non lo sono di meno nel tempo.
Tanto spesso le poesie che parlano di vita, amore e morte parlano anche di fiori, e questo perché il fiore è da sempre il cuore delle similitudini nelle lingue degli uomini. Lo testimoniano le mille espressioni della lingua corrente, come “il fior fiore”, “avere radici ”, “albero genealogico”.
Il fiore esiste, è qui, oggi, ma presto non ci sarà più. E poi tornerà ad esserci. Tutto questo si svolge nel tempo, non nello spazio.
Ciò che germina e cresce, svanisce, muore, rinasce, feconda, fermenta, si muove e desidera, tutto ciò collega il mondo dell’uomo a quello delle piante in un divino mistero.
É così da sempre. Sin da tempi ancestrali in cui la memoria esisteva perché ripetuta da individuo a individuo, le divinità degli alberi e delle piante erano le medesime che presiedevano ai riti di morte e rinascita.
Il dolore di questo ciclo nasce dalla terra, e solo alla poesia è dato coglierlo. Perciò il poeta è il perfetto giardiniere, in quanto gli è dato di declamare in versi la mortalità, il tempo che fugge, l’attimo colto nel ricordo, un lampo di vita. Solo all’immortalità è concesso di raccontare la mortalità.
Il fiore sarà qui, ancora, mille e mille volte, per tutti coloro che saranno lì a vederlo, simbolo di eternità, oltre che di morte.
Eterno è anche il contrasto tra il fiore e il giardino, due mondi tangenti ma che nella storia dell’Uomo si sono sempre sfuggiti. In verità il rapporto tra l’uomo e il fiore può fare a meno del giardino, e così viceversa. I frastagliati tempi contemporanei ci hanno regalato giardini in cui i fiori sono esclusi, e la rutilante bordura mista olandese/inglese/francese, esclude il rigore geometrico, o forse per meglio dire, include una femminea morbidezza che proprio nel giardino si può finalmente concedere e abbandonarsi.
L’estromissione del fiore dal giardino occidentale è dovuto all’influsso del Rinascimento Italiano, forse perché la cultura più stratificata dell’Italia prediligeva la coltivazione di orti e campagne, dove la mano dell’uomo fosse più visibile. Orazio non coltiva alcun fiore, ad eccezione della rosa, dalla languida e sensuale bellezza, a cui però si era soliti accompagnare il vino e l’olio. I mazzi di fiori, i serti intrecciati e le ghirlande erano follie provenienti dall’oriente.
Il giardino –né quello occidentale, né quello orientale- ha una grande familiarità con i colori dei fiori, che fino alla metà dell’Ottocento erano coltivati con fini botanici e non come espressione artistica.
Se colore ci doveva essere nel giardino, a parte i verdi degli alberi e i grigi della pietra, allora si ricorreva a pietre colorate, come lapilli, marmi, porfidi. Secondo Borchardt il giardino nasce così geometrico per contrastare l’unicità e l’irripetibilità del fiore: “il fiore muta, il giardino vuol guardare all’immutabile”. E così è per la poesia, che riunisce immanenza e trascendenza.
Il fiore rappresenta un ordine, che i greci chiamavano kosmos, bellezza, e l’ordine è sempre un ordine pensato dall’Uomo. Il giardino rappresenta dunque l’umanizzazione della natura o la fuga verso di essa? Ogni giardino ha dato e dà la sua risposta, che sia una bordura di fiori rosa, una modesta striscia d’erba bordata di bergenie, un’aiuola bordata di cordoli in calcestruzzo, profumata di fresie selvatiche e violette, una fila di vasi stipati di bulbi da raccogliere per la Quaresima, una pergola di vite con le rose.
La storia del giardino è una testimonianza di queste risposte attraverso i secoli. Ogni giardino tende ora all’una soluzione, ora all’altra, nel personale modo di chi lo crea, delle sue inclinazioni, dei suoi capricci. La terra si piega a tutto questo, all’ordine che l’uomo porta nella natura. Quindi il giardino può essere solo ordine, “umanamento” della natura.
Ciò che l’uomo condivide con la natura può diventare poesia, arte, filosofia, mito. E contemporaneamente diventa giardino, come oggetto tangibile nel mondo delle cose. Perché il giardino, con il suo esistere, ripetersi in mille differenti aspetti, moltiplicarsi in infinite variazioni, dichiara con tenace pervicacia un’affermazione di se stesso, in una parola, la sua semplice esistenza.
Il giardino di mia madre e altri luoghi, testi critici al percorso per immagini