(III)

È quindi volgare e malinconico lo stereotipo che divide il bene, quello magari dei giovani middle-class, dei papa-boys e degli eterosessuali, dal male degli sbandati, dei senzatetto, degli alcoolisti, dei drogati o degli omosessuali…

Gesù di Nazareth, che continua a ispirare molti di noi, forse sarebbe stato dalla parte dei secondi. Il bene è – come la bellezza – una relazione, e anche se oggi soffriamo proprio della difficoltà a stabilire ordine, gerarchia, diversa intensità del valore, e del bene in particolare, ciò non toglie che tale relazione è – de facto – ermeneutica, non può che essere valida e vera che “per me” ora.

Che cosa mi interessa sapere che i valori più alti sono quelli “dello spirito”, se non ho da mangiare e da bere, se non ho medicine e pulizia, se nessuno mi educa e accudisce? Bene – per me – e sommo bene – è solo il cibo che mi nutrirà, l’acqua che finalmente potrò bere e il gesto fraterno di chi mi accudirà… Kant, Gesù di Nazareth o il Dalai Lama verranno poi…

Dunque – anche se per me è quasi inconcepibile – è bene per il giovane indiano all’angolo della strada vendere le sue rose di stoffa, così come è bene per me scrivere queste righe e per altri scalare una montagna… o fare una passeggiata col bastone.

Evidentemente, ciò che è bene in un dato tempo “per me”, sarebbe male in un momento successivo, come, per esempio, perdere il mio tempo di cinquantenne a giocare con le biglie o a guardare certa televisione.

Allora anche la questione così dicotomica di “salvezza” o “dannazione”, che un certo modo di intendere la tradizione cristiana ci ha abituati a percepire in modo un po’ estrinseco e dualistico, è forse più complessa e insieme semplice, ovvia, scontata. Insomma, noi abbiamo dentro, come i tronchi degli alberi, i cerchi che testimoniano e denunciano il tempo vissuto, e forse ogni cellula del nostro corpo, che materializza la nostra energia, è carica di tale vissuto. Come non pensare che ciascuno di noi si plasma, struttura, scolpisce, dandosi una forma sempre più determinata, una x, un quoziente di valore, che alla fine sarà il suo destino? Certo, è innegabile che – ad ogni momento – conta la direzione che stiamo a prendere: camminare verso un baratro o in direzione contraria non è irrilevante. Ma alla fine la scelta della direzione è pure frutto di un vissuto, e fenomenologicamente possiamo nutrire fiducia (una fiducia, quasi naturalistica, in quel logos che molti hanno rintracciato nell’ordine delle cose – oltre che nel Dio della salvezza) che l’esito del nostro vivere sarà conseguente alla sua qualità, certamente non mondana, ma intrinseca.

C.Sottocornola, I trascendentali traditi, 2011

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