“I trascendentali traditi” di Claudio Sottocornola,
fra “pensiero debole” e “pensiero forte”

di Agata Salamone

Ci capita di fare le letture che ci servono, come se, nello scegliere un libro, seguissimo l’ordine delle nostre necessità interiori. Un libro che ci capita a proposito, come per una magica serendipità, inaspettatamente, suscita una certa sorpresa. A me è capitato leggendo questo ultimo lavoro di Claudio Sottocornola. Io ringrazio questi coraggiosi che ancora credono nella forza della parola scritta, che ancora affrontano la fatica della cura parlata, e, come veri iatrosofisti , ci danno altri mezzi concettuali per narrarci e per capirci. So che per Claudio il vivere è sviluppare una ermeneutica del sé e del mondo, e perché non dire dell’essere, visto che il problema che egli pone, a partire dal titolo, così inequivocabile, è il problema dei trascendentali. Parlerò di come io ho letto il libro, così lo seguo sulla sua stessa strada: la comprensione, la lettura come una esperienza essenzialmente interpretativa a partire dal sé.

Nei vari testi spesso Claudio, da un incipit autobiografico, passa alle argomentazioni di carattere generale. Userò lo stesso metodo: le nostre esperienze costruiscono sistemi di riferimento per la ermeneutica della comunicazione: a me il titolo ha fatto venire in mente un libro che ho letto molto tempo fa, di Julien Benda. Nel 1927 scriveva un libro intitolato “Il tradimento dei chierici/ Il ruolo dell’intellettuale nella società contemporanea”. In quel libro, nato dal bisogno di prendere posizione nei confronti delle ingiustizie, l’autore difendeva il ruolo degli intellettuali , custodi dei valori, la cui attività, nei suoi auspici, non deve perseguire fini pratici, ma deve essere rivolta al servizio degli universali, cioè di fini quali la ragione, la verità, la giustizia. Sembra adesso un discorso conservatore, perché è il discorso di chi ha fiducia che possano permanere ed essere conservati presupposti universali e non soggettivi per i giudizi di giusto, vero, ecc… Traditori, dice Benda, gli intellettuali che sono diventati servi dei regimi, si arrogano privilegi di casta, e seguono senza modificarli i sentimenti dell’uomo comune, la doxa, il discorso non vagliato razionalmente, rinunciando alla funzione critica che loro spetta. Benda richiamava gli intellettuali al loro ruolo deontologico di servizio alla verità. Li accusa di aver provocato l’impoverimento culturale, di essersi subordinati agli interessi delle classi dominanti. La letteratura, coltivata come istanza di libertà, dovrebbe impedire agli intellettuali di divinizzare i conflitti e di fare confusione tra interessi rozzi e interessi spirituali, tra pensiero terreno e desiderio di redenzione. Benda lamenta la caduta dell’intellettuale dall’olimpo per mescolarsi agli uomini, smettendo il suo fondamentale compito e prostituendosi, invece, per sostenere interessi particolari o per difendere lo status quo della storia. Dice Benda: “Lo scrittore dà alla società una coscienza infelice e per questo è in continuo antagonismo con le forze conservatrici”. ”. E’ in questo senso che associo l’impegno di Claudio Sottocornola, e il suo testo di carattere letterario e filosofico, a quello dell’intellettuale – Benda direbbe chierico – che segue una vocazione imperativa: egli ricerca l’universale oltre il particolare, pone mete morali più avanzate di quelle attuali; si lascia scandalizzare dalla sciatteria dei costumi comuni per indicare una prospettiva più avanzata. Perché l’ intellettuale-chierico chi è? E’ l’Antigone che seppellisce il fratello disobbedendo all’ordine del re. L’ideale dello stato, del potere costituito, è essere forte, non giusto. Il Potere non sa che farsene della verità, costringe a pensare collettivamente, cioè a non pensare. L’ordine è il suo valore, essenzialmente pratico, e il chierico che lo venera tradisce la sua funzione. L’equivoco dell’egualitarismo democratico “consiste nell’ignorare che la democrazia non vuole l’uguaglianza dei cittadini, se non di fronte alla legge.” Per il resto “tutti gli uomini nascono liberi e inuguali.” Ed è tradimento esaltare lo stato monolitico, il Moloch semitico a cui si facevano sacrifici umani. La famiglia contro l’individuo, il corporativismo al servizio del particolarismo degli interessi temporanei contro gli interessi generali, il regionalismo contro l’internazionalismo, pongono il tema attualissimo della definizione della giustizia, della verità, del bene, le tematiche che Sottocornola affronta nel suo libro. In nome dell’efficienza si sopprime l’autonomia individuale. Ma voler negare valori assoluti è un tradimento di carattere culturale, il tradimento come dismissione della ricerca che è il compito filosofico per eccellenza . La religione del progresso non è un atteggiamento clericale. Fare il gioco delle passioni politiche non è da chierici, è tradimento per i “sacerdoti della giustizia astratta”, così Benda si rappresenta il ruolo degli intellettuali. Il culto dei particolari e il disprezzo degli universali è esattamente il rovesciamento dei valori; è questa la cifra della modernità?

Nello stesso periodo in cui ho letto il libro di Benda ho letto “Dell’uomo nobile” di Meister Eckhart , un sermone riscoperto dall’idealismo tedesco, rimasto nell’ombra perché processato a Colonia nel 1326 dall’allora arcivescovo: 28 frasi furono censurate nel 1329. Importante teologo, questo domenicano di Erfurt, che studiò a Colonia e a Parigi, dove divenne lector sententiarum, nominato priore e poi vicario generale in Turingia, subì accuse diverse ( falso profeta) , ma fu anche molto amato (amabile maestro). Parlava dal punto di vista dell’Eterno, inteso dal punto di vista del tempo. La sua dottrina affermava che uomo nobile è chi cerca la verità al di là delle differenze storico culturali. Per trovare la verità serve l’umiltà, e Claudio fa l’elogio dell’umiltà come condizione ontologica, anche attraverso uno sguardo ai sobri anni ’70 con l’eschimo, messi a confronto con il grangalà, la braveria e il parlare alto al cellulare di oggi, in cui legge il segno di una sconfitta del senso del limite. che per Eckhart è riconoscere la propria sottomissione alla necessità (tutto è sottomesso alla necessità). Non esistono valori di cui ci si possa appropriare. Bene è tutto ciò che è creato. L’io empirico psicologico, che è un determinato centro di volontà (amore), di forza ( potenza) e di appropriazione ( sapienza), è impermanente. Bisogna farsi nulla in sé, distaccarsi da sé, che significa trovarsi non separato dal tutto, tra le cose e Dio. “E’ Dio e tutte le cose”. Nella mistica morte dell’anima si cancella l’alterità dell’essere e si entra “nell’Uno e nella pace”. Tutte le creature sono un solo essere (non il singolo, nemmeno il totale che è la somma dei singoli impermanenti). La realtà è spirito. Distacco è rescindere il legame con il particolare: liberazione dalla volontà e dal condizionamento. Si accede all’universale, liberi dalla volontà e dall’ opinione, che fanno idolatrare la propria immaginazione. La vita dello spirito, l’intelligenza, è dialettica: confuta tutte le opinioni e produce “ la più grande delle purificazioni… “. Viviamo costretti da fini determinati e le azioni sono strumentali a fini a cui siamo subordinati – ciò è morte… I fini particolari ci fanno distinguere bene e male a seconda che funzionino per i fini della vita – la volontà che si ferma a determinati fini è schiava . Liberi dalla prigionia dei contenuti e delle opinioni, ogni istante appare nuovo, reale, bene sempre presente . Le forme positive delle religioni devono sparire: in esse il divino è determinato. L’universale è il naturale quotidiano – qui – ora – ove si genera di continuo il logos, lo spirito… “ove liberi, nasce l’affetto per il Prossimo” (non Altro ma Prossimo). Non si è giusti se si fanno cose giuste, ma si fanno cose giuste se si è giusti. L’uomo diventa vuoto, libero, in-determinato, allontanandosi da ogni accidentale, se annulla l’io psicologico e lo conduce a una mistica morte imprescindibile per la nascita dello spirito. Dio pensato dall’io è proiezione dei suoi bisogni. Per andare oltre bisogna non trovare un GOTT determinato, ma l’Abisso della nuova divinità. Si sperimenta così l’io vero che è spirito, eterno movimento. Da Dio all’io: “Dio nel vuoto non può fare a meno di entrare come l’acqua non può fare a meno di riempire il vuoto che trova sotto di sé”. “Dio generato dall’uomo” (4 trattati sulla nascita eterna di Dio nel fondo silenzioso dell’anima): “Nulla sa più di fiele del soffrire, e nulla sa più di miele dell’aver sofferto, nulla di fronte agli uomini sfigura il corpo più della sofferenza, ma nulla davanti a Dio abbellisce l’anima più dell’aver sofferto”. L’uomo nobile come la grande aquila di Ezechiele, che sale verso il regno dell’al di là delle forme e delle immagini. Il misticismo di Maister Eckhart è una soluzione al problema degli universali, cioè rappresenta una via per la definizione di criteri di giudizio che si vogliano fondare su una verità permanente.

Tra questo estremo, che appartiene a una sensibilità molto lontana dalla nostra, e l’assolutizzazione dogmatica della frammentarietà e parcellizzazione dell’individualismo sfrenato, quella di Sottocornola è una mediazione. La sua non è una via strettamente mistica. Sento nel suo testo che dialetticamente avvalora sia il pensiero debole che il pensiero forte. Sento una vicinanza con il razionalismo spiritualista antico e moderno, da Abelardo a Mancuso. Per Abelardo la fede in ciò che non può intendere, dichiarata verbalmente, è priva di spessore spirituale. La fede richiede una intelligenza di ciò in cui si dice di credere. Bisogna fare lo sforzo filosofico di intendere, dunque, per fondare la fede. La filosofia diventa ricerca di una verità, ricerca libera che comporta una interrogazione incessante sui testi, che muove dal dubbio, solo metodo, per lui che divenne il fondatore della Scolastica: “Non si può credere se non ciò che si intende”. L’universale non è una realtà spirituale autonoma dall’uomo, ma un concetto astratto che si riferisce funzionalmente al significato delle cose per l’uomo. “Universale est sermo” , il significato, uno status di correlazione di più particolari . Il libro di Claudio nella sua leggerezza fa il punto su una questione che è esattamente il tentativo di definire la Bellezza, la Verità, la Giustizia, il Bene, presupponendo la possibilità che si possa superare l’obiezione fondamentale che affiora spontanea sulle labbra di chi si è convinto della impossibilità di ogni universalizzazione concettuale a proposito di Giustizia, Verità, Bellezza… Il cosiddetto pensiero debole, ovvero il relativismo. Io preferisco parlare di prospettivismo.

Esiste o no una definizione per che cosa è il bene, il bello…? Ecco l’attualità della domanda. Mi vengono in mente allora le mie letture più recenti, per esempio del libro di Mancuso “Io e Dio”, ma prima di arrivare così vicino, torniamo ancora per un po’ alla Scolastica.

La Scolastica chiamava trascendentali i caratteri che “appartengono all’essere” – per Tommaso d’Aquino sono res, unum, aliquid, verum, bonum e infine pulchrum. Lontanissimi dalla scoperta filosofia, nella intima realtà di ogni essere, di un valore essenziale delle cose a prescindere dalla loro utilizzabilità, noi abbiamo esattamente un modo di rapportarci alle cose che è quello relativo alla loro utilizzabilità. Per la Scolastica tutti gli esseri hanno il comune carattere dell’essere, un valore che Sottocornola dichiara disatteso dal contemporaneo (“ …ridotti ai minimi termini giocati al ribasso di un consumo effimero delle vite e delle intelligenze, traditi da identità culturali solo clientelari e opportunistiche.”). La dimensione di libertà che Ockham sintetizza dicendo “L’uomo può agire lodevolmente o biasimevolmente , e per conseguenza meritare bene o demeritare perché è un agente libero e perché molti atti sono solo a lui imputabili”, oggi troverebbe molte obiezioni. Io stessa in classe ho constatato come non è scontato che un giovane abbia consapevolezza della effettiva dimensione morale della sua vita: spesso mi sento ribattere che i comportamenti umani sono assimilabili alle operazioni di un robot programmato occultamente da forze esterne e determinato ad essere ciò che è. Capisco il bisogno che fa affrontare a Claudio queste tematiche, perché condivido con lui una porzione della nostra storia generazionale: costretti a fare i conti con un certo dogmatismo ritualistico di forma cattolica avendo una forte intenzionalità di innovazione e di autenticità, a fronte di una urgenza pedagogica che ci coinvolge in quanto educatori. Capisco il fascino che ha per lui la poesia come espressione dello spessore di una ricerca spirituale mai conclusa.

Per noi insegnanti, che siamo comuni cittadini, ma ci riconosciamo delle responsabilità culturali oltre i ruoli funzionali che ci vengono riconosciuti da tutti, il problema è deontologico. Impostare un discorso rinunciando o non rinunciando a un livello superiore di verità e di giustizia, comporta una responsabilità. Mi torna in mente Simon Weil . Per lei l’attenzione è facoltà primaria da educare . E’ in gioco l’incontro dell’intelligenza con la verità. L’amore è da lei considerato un orientamento, non uno stato d’animo. Il potere, secondo lei, lo strumento, come il pianoforte per un compositore musicale; deve servire alla politica che ha per oggetto la giustizia. I bisogni dell’anima corrispondono ai doveri verso la creatura umana. “Il bisogno di verità, che è il più sacro, esige che non si eserciti mai, nel campo del pensiero, nessuna pressione materiale o morale che proceda da una preoccupazione diversa dalle preoccupazioni esclusive della verità, il che implica l’interdizione assoluta di qualsiasi propaganda e la protezione pubblica contro l’errore e la menzogna”, ecco come si pone il problema. Simon Weil – nel libro “La prima radice. Preludio a una dichiarazone dei doveri verso l’essere umano” (1909/1943) – racconta la crisi della civiltà europea. Nel 1943 si dedicò al progetto di ricostruzione civile e politica che il libro riassume. La malattia politica che individua è lo sradicamento: la distorsione idolatrica del senso della patria (oggi potremmo dire del senso della propria appartenenza territoriale, più modestamente, o peggio, della propria appartenenza etnica, purtroppo pensata come un reale connotato della propria identità), la perdita della percezione della realtà come composizione multiforme di significati, di relazioni, la perdita del legame tra passato e futuro, e col territorio, con la lingua, con l’ambiente. Per il radicamento le condizioni di equilibrio, scambio, sono obbligo e responsabilità. Quella generazione era in effetti mossa dal desiderio di rigenerazione e purezza dopo il punto zero della seconda guerra mondiale. Bataille parlò di pessimismo ardito ( oggi Mancuso parla del suo ottimismo tragico). Lo sradicamento è privatizzazione e logica proprietaria di ciò che è pubblico. La società, lo stato, il diritto, sacralizzati come entità sovra- individuali, che funzionano come strumento di propaganda e manipolazione, sono il luogo dello sradicamento. Simone Weil vi contrappone una politica poetica creazione artistica, composizione simultanea su piani diversi: “Per la pace servono verità e bellezza”. L’omologazione o l’assolutizzazione locale sono fine delle relazioni. Invece agire secondo il modello delle composizioni deve ispirare l’azione pubblica politica degna di questo nome. Alla nozione di diritto, sovrasta la nozione di obbligo : l’adempimento del diritto viene dal riconoscimento dell’obbligo corrispondente che deve essere riconosciuto. “E’ eterno solo il dovere verso l’essere umano”. E fa l’elenco di questi universali diritti/doveri: l’ordine, ove ogni particolare concorre alla bellezza combinatoria; la libertà o possibilità di scelta in un sistema di regole con vincolo (per sovraccarico di paura e di responsabilità ci si rifugia nell’indifferenza – se troppo vaste le possibilità); l’ubbidienza a regole e uomini, ove i capi sottostanno all’accordo; il consenso interiore; la responsabilità – da educare; l’uguaglianza compatibile con la disuguaglianza; l’onore, la punizione, la libertà di opinione, la sicurezza…la verità… Mentre il giornalismo è una organizzazione della menzogna.

Per il presupposto trascendentale che è l’io , centrale secondo Simon Weil (in quanto è la fonte del senso della misura delle cose, che fa il discorso unificante , che ha in se i parametri , i codici per il giudizio di valore) diventa la scrittura come cura , contemplazione, concentrazione , analisi, memoria, scavo. Nella nostra cultura oralizzata, la scrittura è un anticonformistico modo di ammazzare il tempo, direbbe Feyerabend – Claudio dice “una esternazione ingenua e viscerale”. Ma si potrebbe parlare di diritto/dovere alla verità e – per citare ancora Claudio – di “sguardo all’orizzonte, struggente attesa d’altro”, perché nel mondo del cucù, come direbbe Postmann, diventa un diritto sapere l’intero, cercare l’universale. Il bisogno di rinchiudersi nelle apparenze genera una videocrazia che ha i suoi totem e i suoi tabù e che stende l’uomo al desolato livello del materialismo odifreddiano. Odifreddi afferma di credere alla natura, meccanismo perfetto (? ). Ammesso che sia una perfezione il funzionamento corrispondente perfettamente alle previsioni, è tutto da dimostrare che sia davvero così. La nostra è anche una tecnocrazia : intende l’efficienza risolvibile nel funzionamento standardizzato e prevedibile delle dinamiche comportamentali , nell’uso produttivo della vita insomma. La malattia viene definita una disfunzione, trattata come un difetto, mortificata come imperfezione, e la morte stessa chiamata disfunzionalità irreversibile. La cura viene programmata come una riparazione di un difetto con un intervento tecnico esperto (in “Invasioni barbariche” si documenta la cura del dolore con prestazioni programmate e retribuite di una tossicodipendente esperta) . Si fa finire ciò che non si cura in modo assistito: radicalizzata anche la morte. Per me pensare l’uomo come tubo digerente è ateismo. E penso anche per Claudio. Problema ermeneutico è il riconoscimento del valore delle cose. La ricerca del valore ultimo delle cose non ha il fine di una rifondazione totalitaria dei dogmatismi dottrinali e integralisti, ma il valore di uno sforzo a superare la contingenza e la frammentarietà che rendono impossibile ogni tenuta di un qualche valore e lo stesso riconoscimento di ciò che può avere un valore.

Dolci ne “La struttura maieutica e l’evolverci” scrive “ un diario di bordo che ho appuntato navigando nei secoli in ascolto di voci che rischiano di spegnersi alla nostra coscienzaMaieuta di richiami inascoltati dal mondola maieutica cosmica ci è urgente… ci educa a valorizzare l’insieme”.

Claudio parla della verità come incontro… la conoscenza della verità è attingibile dal coinvolgimento. La sua è una esperienza anche poetica, nel senso che dà Danilo Dolci alla poesia: in “Creatura di Creature – poesie 1949/1978”, scrive: “La poesia è anche intuizione, radar , possibilità di vedere… si trova che la poesia è in grado di sopperire, anzi ha il potere di provocare un modo diverso di esistere… chi fa questa esperienza comincia a riconoscere le infinite radici che lo collegano, che dovrebbero collegarlo a tutto… Se visto attraverso il limpido cristallino di Dio il mondo è un proliferante intreccio espansivo… che esiste più come progetto inesauribile di creazione che come creato. L’uomo con il suo lavoro ne è parte in ogni occasione”.

La scoperta della interiorità come luogo della scoperta della verità ha un nobile inizio nella stessa nascita della filosofia come disciplina del pensiero. Sant’Agostino stesso dice: “ entrai nel mio intimo sotto la tua guida… vi entrai e vidi con l’occhio dell’anima una luce immutabile… chi conosce la verità conosce quella luce e chi la conosce, conosce l’eternità. L’amore la conosce… Dio si raggiunge con la memoria… Cogitare significa raccogliere non in altro luogo che nell’anima”.

Ed è modernissimo questo concetto che possiamo illustrare con Gianni Vattimo, “La fine della modernità” (1991). Vattimo prende le distanze dall’idea comune di progresso e di avanguardia. La modernità è dominata dall’idea di storia come progressiva illuminazione, rinascita, superamento. Il culto del nuovo e dell’originale e il senso progressivo della storia, per Huizinga, nascono nel medioevo. Ma , data la dissoluzione dell’idea di stabilità dell’essere (per Heidegger è il vuoto) il progresso diventa routine e il concetto di sviluppo è stato secolarizzato. E’ diventata impossibile la storia universale, è diventato impossibile il grande racconto per la contemporaneità del racconto, e per la frammentazione dei racconti possibili e la democratizzazione dei racconti possibili; per l’uso dei mezzi di comunicazione tecnologicamente avanzati (di destoricizzazione dell’esperienza parla Mcluhan). Si va verso il nichilismo, la situazione nella quale l’uomo rotola dal centro verso la x. Alla fine, dell’essere come tale non ne è più nulla. Nella “Società trasparente” del 2000, Vattimo parla di post- moderno. La modernità finisce quando non si può più parlare della storia come qualcosa di unitario, a partire dalla critica del carattere ideologico della rappresentazione unitaria (Benjamin dice: “Storia come corso unitario è rappresentazione del passato costruita da gruppi dominanti ). Forse nel caos è una speranza di emancipazione: dissolvendo i punti di vista centrali, dopo l’effetto di omologazione, si moltiplicano le weltanshaund possibili e il pluralismo dei grandi racconti possibili. E’ la profezia di Nietzsche, “Il mondo vero alla fine della favola”. Nietzsche ha mostrato che l’immagine di realtà ordinata e razionale è un mito rassicurativo. La metafisica, gli universali, sarebbero un modo ancora violento di reagire a una situazione di pericolo percepita nel panta rei . I mass media fanno perdere il senso della realtà, il mondo delle cose diventa il mondo delle merci. Ma anziché coltivare la nevrosi della nostalgia, occorre coltivare la speranza della emancipazione dallo spaesamento . Claudio Sottocornola riconosce a se stesso di avere insegnato la tolleranza, un punto di vista più ampio, ermeneutico, attraverso questo mezzo: il riconoscimento delle altre ragioni, senza rinunciare a cercare le ragioni e perfino la ragione che le pacifica tutte.

Postmann, in uno dei libri che il libro di Claudio mi ha fatto tornare in mente (“L’insegnamento come attività sovversiva”, 1969) – dice, citando Hemingway , che “dote essenziale da formare è il possesso di un rivelatore interno del ciarpame, per la continua lotta contro l’adorazione del ciarpame”. L’insegnante sovversivo, antidottrinale, è quello che insegna a porre domande, per rendere capaci di imparare a imparare. Formare capacità di giudizio è la connotazione del suo dono: dono utile è l’ educazione che orienta a individuare valori, ormai possiamo nominare così i trascendentali elencati nel suo libro da Claudio. L’educazione all’ascolto e l’esercizio al dialogo diventano propedeutici per la formazione morale. Lo dice anche nel suo “The gift”, dedicato proprio ai maturandi.

Posto filosoficamente, il problema del giudizio sui valori, anzi della loro scelta, è un problema di carattere ermeneutico. Dobbiamo parlare di circolo ermeneutico : la comprensione delle parti richiede la pre-comprensione dell’intero e viceversa. Ove assume un ruolo fondamentale la psicologia, la soggettività dell’interpretante. Gadamer ha scritto che l’uomo del ‘900 ha perso la ingenua e ottimistica fiducia nelle proprie capacità di comprendere la realtà e se stesso. Dal disorientamento causato dalla perdita delle certezze, esattamente il problema che pone Sottocornola ne “I trascendentali traditi”, emerge un bisogno più forte, l’interrogativo fondamentale sul significato dell’essere. La problematica ha una dimensione etica: la verità è problematica perché si deve costruire fuori dei canoni soggettivi. Heidegger ha radicalizzato il circolo facendone una forma universale del comprendere: a partire da una anticipazione di senso, ovvero da una domanda, da un bisogno nel contesto del tempo in cui il suo essere sta, si dà esistenza all’essere. L’ermeneutica viene considerata una situazione esperienziale la cui natura ha un carattere dialogico, illuminato dalla interazione tra domanda e risposta. La verità non può essere definita in modo esaustivo. È il “sapere di non sapere” socratico.

Sembrerebbe che la vocazione dell’ermeneutica sia nichilista, essendo dipendente dal sistema percettivo del soggetto e dalla sua cultura particolare. Allora l’edificazione di una teoria di più ampia veduta è legata alla intersoggettività e alla responsabilità. La verità in filosofia si fonda su una certa fiducia nella storia dell’essere: è possibile individuare interpretativamente linee di continuità , una sorta di evoluzionismo filosofico, senso della creaturalità, una specie di provvidenzialità. La filosofia si rapporta al passato come ad un insieme di possibilità che si offrono a interpretazioni . Nasce dal perenne conflitto o gioco delle interpretazioni. Questo il senso della espressione “pensiero debole”, che rimanda a una certa ironia di fondo verso ogni enfasi soggettiva. Ogni ricostruzione storica è una interpretazione, ossia una conoscenza che non è mai incontrovertibile, ma rimane un’ipotesi, un problema.

Edgar Morin, nel libro “Industria culturale”, dice che la standardizzazione, ossia la cultura di massa nel complesso sociologico della economia capitalistica, obbedisce a una legge fondamentale che è quella del mercato. Da qui la sua elasticità che rende compatibile al sistema anche ciò che vi si oppone. Accanto c’è la volgarizzazione, che si ottiene attraverso un processo elementare di semplificazione, attraverso la manicheizzazione, l’attualizzazione, la modernizzazione, con l’happy end come aggiunta. Elasticità e volgarizzazione connotano una cultura di indifferentismo eclettico. La possibilità dei consumi rende la vita stessa l’ambito del loisir: la cultura di massa è la gigantesca apologia del piacere e il loisir diventa stile di vita, l’unico che si vuole seguire. Trovare un contravveleno a questo avvelenamento da gregge è una urgenza.

Nietzsche ed Heidegger hanno inteso smascherare il nichilismo: la nostra storicità non corrisponde a una secca alternativa metafisica tra essere e niente, piuttosto a un modo di esistere nel tempo che comporta una complicità di essere e niente. Il divenire è processo in cui gli eterni entrano ed escono dalla luce dell’apparire. Heidegger dice che assumendo la morte come possibilità ultima, ineludibile, l’uomo ne fa la possibilità in grado di unificare l’esistenza in un progetto che si sviluppa. Si può dare un senso alla storicità.

Trovo in questa direzione che la lettura del libro di Claudio Sottocornola sia utile: entra subito nel cuore del problema, presentando la sua teoria e il suo pensiero sulla bellezza, sulla giustizia, sul bene, la verità, l’umiltà, senza rinunciare a un tentativo di mediazione tra taglio ermeneutico esistenzialista e aspirazione all’universale. Ho già osservato prima che l’approccio biografico e delle sue poesie e dei suoi saggi mi fa avvertire una certa consapevolezza della scrittura come cura di sé. Duccio Demetrio, nel libro “Raccontarsi, l’autobiografia come cura di sé” del 1996, lo esprime così: “ vivere al modo di chi fa un lavoro di tessitura”. Per Kundera l’ingresso nell’età adulta ci impone delle variazioni di stile, degli adattamenti e aggiustamenti che richiedono pazienza: l’uomo adulto è un uomo plurale. In questa chiave si può leggere la depressione come una resa all’unicità, che diventa nullità. L’adultità, attraverso la tregua autobiografica impara ad accettare la propria molteplicità. Darsi uno spazio autobiografico può essere insieme una ricetta di adultizzazione e di ringiovanimento. Nello stile di Sottocornola, il piacere di ricordare sostiene una certa pedagogia della memoria, per rintracciare la sacralità delle proprie esperienze. Tale autocoscienza riflessiva è per questo libro il retroterra che è stato svolto in tutte le pubblicazioni precedenti. E in quanto è così, attraverso la biografia Claudio intercetta i rapporti individuo-società che sono quelli anche dei suoi contemporanei. Egli seleziona e trasmette elementi della sua storia di vita, che sarebbero incomprensibili senza il contesto. Le immagini strutturate di sé coinvolgono la memoria che non è solo rifugio, ma è cultura, progetto…

Memore forse delle parole di S.Paolo , che Il vero uomo è colui che ha trovato qualcosa più grande di sé per cui vivere, ma che proprio per questo acquisisce un sapore, un timbro, una musica interiore del tutto personali e inconfondibili, Claudio si avvicina a un modo di essere autentico e fedele a se stesso, che è quello di un autentico ripensamento sul sé interiore. Autenticità come viene da Mancuso definita in “La vita autentica” del 2009, ove parla di uomo autentico come uomo libero, libero innanzitutto da se stesso. Uomo autentico quello che vive per la giustizia, per il bene, per la verità. Verità associata all’armonia, al bene e alla giustizia, che sono una unica cosa che orienta la vita autentica. Per Claudio Sottocornola l’uomo vive nel particolare squarcio di essere che è un ritaglio dell’universale, vive tentando una visione durevole che sa in anticipo essere prospettica e parziale, ma sa che può mettersi in ascolto di una costante, di una persistenza, di una omogeneità che va cercata con umiltà e pudore, senza dogmatismi, ma con libertà e autenticità. Riemerge il senso delle visioni olistiche che da Scoto Eriugena a Bruno a Hegel fino a Panikkar, più volte citato da Sottocornola, conciliano il finito con l’infinito in chiave emergentista. Con Cartesio abbiamo imparato che chi cerca la verità deve una volta nella vita dubitare di tutto. E allora sospendiamo il giudizio troppo impulsivamente trascinato a dire che la dimensione materiale, concreta e naturale dell’uomo sia tutto l’uomo. Troviamo che l’uomo si sa libero. E le neuroscienze non sanno spiegare la libertà: vuol dire che non sono la via adeguata per il fenomeno uomo.

Per Bonhoeffer , la parola veridica non è una grandezza costante in sé. E’ vivente come la vita stessa . La verità è la vita buona , riguarda tutte le dimensioni della vita. La verità si attinge solo quando si ha cuore per l’intero. Essa non è solo esattezza, ma soprattutto bene e giustizia, saggezza nell’utilizzazione del dato esatto. In essa si può entrare solo mediante l’adeguazione della nostra intelligenza e della nostra volontà alla totalità del reale.

Presentazione del libro, Libreria Buona Stampa – Bergamo, 16 dicembre 2011

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