Simone Gallarati

“Il giardino di mia madre”

Osservando i vari scatti raccolti nell’itinerario visivo “Il giardino di mia madre e altri luoghi”, il fatto che più mi ha colpito, è la voluta e apparente trasandatezza di alcune immagini, sia nella scelta dei soggetti che per quanto riguarda l’aspetto della messa a fuoco. Ovviamente oggigiorno siamo abituati a una quasi innaturale definizione d’immagini, data la facilità con cui possono essere modificate digitalmente o create artificialmente al computer.
Penso quindi che ci si possa domandare se tale caratteristica sia dovuta ad una possibile mancanza d’abilità del fotografo (ipotesi in realtà da escludere), o magari ad uno scopo ben diverso, il vero messaggio che tale raccolta vuole trasmetterci.
Effettivamente, quando chiudiamo gli occhi e rievochiamo nella nostra mente un luogo, un evento o una persona a noi cara, non visualizziamo delle immagini ben definite, ma solo alcuni particolari, forse non chiaramente distinguibili nelle nebbie dei ricordi.
Ma, ad ogni modo, che cosa significa “mettere a fuoco”? In fotografia, tecnicamente parlando, la fase di messa a fuoco consiste nella regolazione della distanza del gruppo-lenti dell’obiettivo dalla pellicola in modo che su quest’ultima sia proiettata un’immagine nitida dell’elemento prescelto. Ovviamente, noi, in quanto esseri umani, non vediamo il mondo in modo assolutamente oggettivo o percepiamo la realtà ugualmente, ma la nostra visione appare più o meno nitida in base ad elementi che registriamo soggettivamente e che determinano, in maniera positiva o negativa, la nostra opinione. Di un’immagine o evento ricorderemo quindi solo ciò che più ci è apparso significativo, o che ha avuto un particolare significato per noi.
Che cosa c’è allora dietro ai fiori, alle piante, agli edifici, alle persone, ai luoghi, al giardino stesso per l’autore? Sicuramente l’amore per la madre, così profondo da superare le immagini, i luoghi e ricordi e da restare sempre vivo e presente.

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