Claudio Sottocornola

La cometa nella notte occidentale

Non so cosa mi abbia spinto a ricercare, dentro le “sudate carte” della mia giovinezza, le tracce di un passato da salvare e mettere al riparo dalla perdita, ma è vero che, ad un certo punto, ho incominciato a rileggerle, selezionarle, aggregarle, e oggi siamo ormai, dopo un paio d’anni di ricerche fra quaderni, agende e diari, a un’impaginazione, faticosa e prolungata , di questi “Scritti giovanili”, in cui un po’ ritrovo la mia storia, quella della mia famiglia, e della gente intorno a me.

“Il pane e i pesci” è il titolo della trilogia che raccoglie tali scritti, e che presenterò il 17 dicembre, alle 17.30, nella ex-chiesa di San Sisto a Bergamo, e che da allora apparterrà un po’ a tutti, o almeno a quanti la leggeranno, segnalando inevitabilmente il tempo intercorso fra quel 1980 in cui, ventunenne, appuntavo le prime riflessioni, e questo 2010, in cui trascrivo le ultime citazioni e ancora vado in cerca di qualche “illuminazione”.

In questa trilogia trovano posto: “La spiritualità eucaristica di Charles de Foucauld nella sua vita” (la mia tesi di laurea risalente al 1985-86), “Scritti cristiani per la gente di Colognola” (articoli a carattere ecclesiologico realizzati per “L’Angelo in Famiglia”, fra il 1984 e il 1994) e “Scritti spirituali giovanili, citazioni, appunti, aforismi” (una specie di “diario interiore”, dal 1980 al 2010). Si aggiunge un fascicolo introduttivo, “My status quaestionis 2010”, che contestualizza le tematiche del sacro affrontate in quei testi nell’ambito di un contemporaneo fatto di globalizzazione, fenomeni migratori, “rapporti liquidi”. Il tutto articolato sotto la generica dizione di “Scritti cristiani” ed un titolo complessivo, “Il pane e i pesci” appunto, che vorrebbe evocare l’immagine “di una fraternità allargata, di un dono escatologico, che va oltre la promessa dei figli dell’uomo” (G. Carminati, in “Il pane e i pesci”, vol. III, Introduzione).

Mi chiedo cosa mi abbia spinto a scegliere la pubblicazione di percorsi così eterogenei e pure animati dalla medesima tensione spirituale che giustifica titolo e immagine. Mi chiedo soprattutto cosa io abbia voluto e voglia dichiarare: senz’altro – è lontanissimo dalla mia sensibilità, laicamente formatasi – non una istanza apologetica o rigidamente confessionale; non una intenzione, ancor più criticabile, di proselitismo spirituale o culturale; ma piuttosto, una “confessione” nel senso agostiniano del termine, di ciò che ha costruito, plasmato e orientato la mia esistenza, in un contesto che variamente va seppellendo il suo significato dentro un profluvio di merci e consumi che ottundono un po’ tutti in questo avamposto di nuovo millennio.

E agostinianamente questa “confessione” vuole dirsi come esistenziale, affermando con forza il suo valore vitale e culturale: sì, perché, e lo vedo anche dai miei alunni, che sempre più si orientano verso studi pratici, legati all’economia, all’ingegneria, alla medicina o al diritto, ogni tematica a carattere teologico-filosofico (ciò che, per intenderci, determinava l’appartenenza culturale, sociale o addirittura di civiltà, in epoche passate), è oggi spesso percepita come luogo di un ininfluente soggettivismo personale, di cui si può tranquillamente tacere, al punto da assumere magari poi con cieca inconsapevolezza, variabili comportamentali totalmente identificabili con una logica lontana da quella cui ci si vorrebbe ispirare, e che non trova però più materia, segni, simboli, linguaggi, ambiti di condivisione, per esprimersi.

Sto spiegando, nel mio corso iniziale di Filosofia, Eraclito e il suo logos. Mi piace confrontarlo semanticamente con il logos degli Stoici, e far notare il carattere neo-platonico dell’esordio nel Vangelo di Giovanni: “In principio era il Verbo, / e il Verbo era presso Dio / e il Verbo era Dio… / E il Verbo si fece carne / e venne ad abitare in mezzo a noi… / la luce splende nelle tenebre, / ma le tenebre non l’hanno accolta”. Quale trama di suggestioni e rimandi permette di comprendere questo straordinario linguaggio, questa esperienza misteriosa e ineffabile della realtà…

Eppure oggi il linguaggio del sacro è perduto, in gran parte: da molti esso non riesce più ad essere interpretato come “cultura”, come sforzo di manifestazione e rivelazione dell’ Essere, in grado di vincere l’entropia del “peccato” (prima di tutto intellettuale), rimane oscuro segno, cifra di un passato, di un mondo percepito come accidentale e superabile. Proprio come un over-fifty può pensare dell’hip-hop o dell’iPod. Quale perdita! In assenza di qualsiasi analogo in grado di raccoglierne l’eredità.

Ecco perché ho voluto salvare. E dichiarare, un po’ provocatoriamente: “Il Cristianesimo non mi ha reso felice, ma neanche imbecille. Come il consumismo di questa società tardo-capitalistica tende invece a rendere tanti ragazzi, giovani che vivono di consumi, di usa e getta delle relazioni, delle cose, dei corpi, delle nozioni e della cultura…Al di là della confessione religiosa, il riferimento al Cristo-Logos che designa il credente è, di per sé, una tale garanzia di trascendenza e di universalità, una tale apertura di prospettive, una tale proiezione verso l’orizzonte che non ha né può avere confini, da distruggere, dissolvere, polverizzare, ogni feticcio materiale che – come specchio per le allodole o trappola mortale – il mercato evoca e propone e a cui mi vorrebbe far tendere… Non mi ha reso quindi felice il Cristianesimo, forse perché la sua comprensione storica si è nutrita anche di limiti e di errori; forse perché la mia comprensione psicologica quei limiti ed errori ha assunto (o forse addirittura perché se ne è fatta scudo); forse perché un paradigma invecchia, ed è necessario che il linguaggio, la sensibilità, la vita, elaborino, superino, maturino… e questo comporta più generazioni, e il prezzo di alcune… Forse per tutto questo il Cristianesimo non mi ha reso felice, ma non mi ha reso imbecille, mi ha reso aperto a quella linea dell’orizzonte che oggi – impegnati nello shopping – non vediamo più…” ( “Il pane e i pesci”, My status quaestionis 2010)

E il Natale che viene ci richiama a questo orizzonte, attraversato da una cometa che riaccende il desiderio e l’ansia del cammino, nonostante tutti i nonostante che lo attraversano e, talvolta, ci stordiscono, ottundono e disabilitano alla comprensione e alla pietà, all’intelligenza e all’amore – alla vita.

“Quando ero bambino, sia alle scuole materne (che chiamavamo asilo) che frequentai per poco, sia alle scuole elementari e medie, a livelli diversi, le feste religiose – come le stagioni – erano scandite, accompagnate e introdotte da letture di poesie, testi letterari e storici, realizzazioni di disegni, canti, azioni simboliche come le letterine al papà e alla mamma, e poi dall’introduzione a testi più complessi e problematici, legati a questioni sociali e tematiche come giustizia e povertà. Il quartiere era poi contrassegnato e caratterizzato da un senso di sacralità, alberi, presepi, addobbi, ma poi anche processioni, regali per S. Lucia offerti in un’aura di stupore, letizia e sacralità , che avvolgevano il bambino e lo avviavano all’esperienza della gioia e del divino” (“Il pane e i pesci”, My status quaestionis 2010).

Ma oggi, il timore di intercettare altre sensibilità, religiose o areligiose, sembra vietare l’introduzione di simboli, come un canto natalizio, un presepe, un angelo, nelle stesse scuole elementari, privando i bambini di una delle esperienze più belle del sacro (e non sto parlando del “confessionale”) che potrebbero fare. Perché non si può rifiutare la lingua che si possiede per esprimere il proprio vissuto, a meno di non raggiungere l’afasia o la totale – e questa volta sì – puerile epidermicità di espressioni, giocate solo sull’ovvio e sul banale. Ero l’altro giorno in un grande centro commerciale: un intero piano era dedicato agli addobbi natalizi, e i simboli più ricorrenti erano alci, casette innevate, buffi pupazzetti. Ma, accuratamente, la produzione aveva evitato ogni simbolo che potesse essere letto come esplicitamente religioso. Il Natale: che festeggia la censura al proprio contenuto. Ecco la notte occidentale.

Naturalmente, nessuno deve cadere nell’equivoco che si possa frequentare oggi e riproporre una scontata, celebrata, auto evidente concezione della verità all’universo mondo. Al contrario, la globalizzazione e lo stesso sviluppo del pensiero, delle scienze religiose, filologiche, storiche e sociali, ci portano a rileggere il grande simbolo dell’Incarnazione come espressione di una religiosità che attraversa l’intera storia dell’umanità. Di cui non a caso lo stesso testo biblico vuole risalire agli albori, e accompagnare all’esito finale, in un contesto che si articola attraverso fedi, spiritualità, culture diverse, pur zoommando su uno spazio-tempo circoscritto e definito, sul mistero di un uomo e di un popolo.

Ma chi volesse rinunciare al proprio universo semantico – e salvifico – a favore di un vagabondaggio episodico ed epidermico fra fedi, linguaggi e storie lontane, si comporterebbe come chi, potendo realizzare un capolavoro letterario con la propria lingua, si azzardasse ad impararne rapidamente un’altra con cui potrebbe esprimersi solo goffamente. E non a caso il Dalai Lama, intervistato sull’interesse che il Buddismo suscita in Occidente, e soprattutto negli Stati Uniti, ribatte che è sconsigliabile convertirsi ad altre fedi, quando si appartiene ad una ricca e plurisecolare tradizione che bisognerebbe conoscere meglio – a un livello adulto e profondo – per apprezzare…

Certo in un contesto di globalizzazione, comunicazione in tempo reale, dilatazione dello spazio-tempo che ci è dato cogliere, cambia la nostra percezione della realtà e del suo mistero: “Le galassie ci servono da coordinate, ma quando troviamo, e cioè viviamo consapevolmente, l’intersezione cartesiana in cui il destino ci ha posti, allora respiriamo quest’aria, questo ossigeno, beviamo l’acqua che ci è data, amiamo nostro padre e nostra madre, parliamo con i vicini, i parenti e i passanti… compiamo il nostro dovere. Da qui, da questo punto dello spazio e del tempo, cogliamo ciò che sta oltre lo spazio e il tempo, meglio ancora, grazie a ciò che è nello spazio e nel tempo, ci mettiamo in relazione con esso, usando la nostra lingua e i nostri mezzi, la nostra fede, imperfetta e perfettibile, la nostra preghiera con i suoi riti, ma anche la nostra poesia, le nostre speranze, le nostre conoscenze, i nostri amori. E questo vale per ogni uomo, ebreo, cristiano, indù, musulmano, ateo o buddista… Altra cosa sarà poi valutare di quanta e quale intensità una esperienza religiosa è capace, quanta e quale intensità un linguaggio consente, se – infine – l’intensità dipenda da un linguaggio – questa o quella religione, filosofia, pensiero – o da una mozione del cuore” (“Il pane e i pesci”, My status quaestionis 2010).

Allora, ancora una volta, l’Incarnazione è il simbolo della prossimità di Dio all’uomo, la sacramentalità di quest’ultimo rispetto all’Assoluto, e tuttavia la sua povertà a manifestarlo, come il Bambino in una mangiatoia, come Amore nel Simposio platonico: “Dunque… ad Amore è capitato questo destino: innanzitutto è sempre povero, ed è molto lontano dall’essere delicato e bello, come pensano in molti, ma anzi è duro, squallido, scalzo, peregrino, uso a dormire, nudo e frusto per terra, sulle soglie delle case e per le strade, le notti all’addiaccio…”.

E per ricordare insieme la notte e la stella di Betlemme, il racconto di un Dio che cerca l’uomo, vi regalo volentieri, con alcune immagini ispirate all’Incarnazione dai miei collage di “Eighties” (1981), questa “Apologia del Presepio”, mio inedito del 1984, come augurio natalizio e piccolo assaggio de “Il pane e i pesci”, ed Velar (vol.II, Scritti cristiani per la gente di Colognola).

Apologia del Presepio

 

Riflessioni fra autobiografia, storia, Vangelo

C’è una Madonna del ‘700 nell’atrio della mia chiesa parrocchiale, un affresco che il tempo ha in parte cancellato lasciando dell’intonaco bianco al posto del Bambino. Ai piedi di questa Madonna ci si ritrova ogni anno – giovani, ragazzi, qualche adulto volenteroso – e si incominciano a montare assi di compensato. Dopo qualche tentativo il soppalco è pronto. Ma il presepio, il nostro presepio, è ancora tutto da costruire. E si va avanti così, da novembre alle sere dell’Avvento, dopo cena, tra legno, chiodi, polistirolo e faesite… La sensazione dell’antivigilia è che resta tutto da fare e allora si lavora tra panico e frenesia, con intuizioni geniali e disperate.

Solo a tarda notte il presepio sembra proprio un presepio e finalmente si può brindare con un bicchiere di vin bianco e mangiare una fetta di panettone.

Nel frattempo, lavorando insieme ci si è fatti amici e, se non lo si era già, quasi si è diventati uomini di fede. Qualcuno sentenzia che costruire insieme un presepio val più di trenta, forse, quaranta prediche. È comunque gratificante – il giorno di Natale – mescolarsi fra la gente che visita il presepio e ascoltarne i commenti, specie se del tipo… “ii è stàcc pròpe brai”.

Ma i miei ricordi presepistici non si fermano qui. Mio padre – ero bambino – la Vigilia di Natale estraeva una piccola capanna di gesso con la Natività dal baule delle cose vecchie: e io capivo che la Festa era arrivata. Fino a quando la capanna non mi è più bastata e… mi sono seduto un intero pomeriggio armato di forbici a ritagliare dal “Corrierino dei Piccoli” le meravigliose figure di carta del mio primo presepio che, però, era sempre “in fieri”, perché bastava una qualsiasi corrente d’aria ad abbatterle. L’anno seguente infatti erano inutilizzabili e allora, finalmente, le statuine “vere”, la carta roccia, il cielo stellato, la cometa. Ultimo, il lumicino grande quasi come i pastori, acceso di fronte a Gesù, in una piccola “liturgia” casalinga, che si rinnovava durante il pranzo di Natale…

Non è questo, come forse può sembrare, un “amarcord” felliniano, ma un modo di radicarsi nella realtà della nostra storia, quasi di ognuno, per tentare di recuperare il senso e l’attualità del presepio.

Non a caso l’uomo a cui la tradizione fa risalire la nascita del presepio è Francesco d’Assisi, un santo “attuale” che, a Greccio, nella notte di Natale del 1223, volle “rappresentare il bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello” (“Vita Prima” di Tommaso da Celano).

E difatti è proprio “greppia” o “mangiatoia’’ il significato del latino “praesepium” o “praesepae”. I primi presepi di cui abbiamo notizia certa sono del secolo XIV: figure in marmo, legno, terracotta, collocate in una cappella stabilmente. Un fatto, insomma, strettamente ecclesiastico.

È però nel secolo XV che si diffonde, specie nelle Fiandre, l’uso dei “répos de Jésus”: non solo le famiglie dell’alta nobiltà ma anche i “borghesi” potevano permettersi culle confortevoli per i propri bambini e così si voleva onorare “il Re del cielo e della terra” apprestandogli culle dal legno preziosamente scolpito, intarsiato d’avorio, pietre preziose, e oro. Evidentemente la mentalità umana ha sempre faticato a sopportare l’idea di un Dio “povero”.

Il ‘700 è invece il secolo d’oro del presepio napoletano, che ha poi invaso il mondo intero. Gli ingredienti? Un paesaggio realistico, spesso il profilo del Vesuvio sullo sfondo, le rovine di un tempio classico come ambiente della natività (moda legata all’impulso degli scavi di Pompei), statue dalle mille fogge secondo gli schemi del barocco e del rococò rivestite di abiti preziosi.

Ed è forse da Napoli che il presepio si diffonde tanto che qualcuno ha potuto giustamente affermare: “il presepio è nato sul mare Mediterraneo e si è diffuso in tutte le sue rive”.

Se l’età illuministica segna un periodo di crisi verso tutto ciò che la ragione non può radiografare, il Romanticismo, con il senso spiccato della storia e l’attenzione alla cultura locale, riporta in auge anche il presepio. Da fatto artistico ed élitario esso diventa così espressione di devozione popolare.

E oggi? Il Bayerisches Nationalmuseum di Monaco, il San Martino di Napoli, sono solo due fra le più ricche raccolte di presepi del mondo. Non è però il caso di farsi illusioni se la cultura specialistica qualche volta riconosce nel presepio una manifestazione artistica di rilievo. Nemmeno ci si deve illudere pensando al lavoro di sensibilizzare svolto dalle “Associazioni di amici del Presepio” ormai diffuse a livello internazionale (per l’Italia la sede centrale è in Via Tor de’ Conti, 31/A – 00184 Roma). La mentalità comune liquida talvolta con faciloneria il presepio, perché non è facile coglierne la teologia, ossia passare dallo stupore alla contemplazione.

Eppure sembra possibile un recupero del presepio che non sia nostalgico ma radicato nella sensibilità religiosa dell’uomo d’oggi. Essa è pervasa da una forte tensione a trasformare la realtà terrena e si commuove di fronte all’annuncio che Dio “si è fatto uomo”. Alla luce di queste due realtà occorre guardare al presepio.

>Giovanni, nel cap. 13 del suo Vangelo, ci aiuterà a coglierne le implicazioni: “Gesù… si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto”.

Nella prospettiva di un Dio-Amore che “serve” l’uomo cogliamo il senso più profondo dell’Incarnazione, e una chiave di lettura del senso del presepio. In questa luce esso acquista un sapore di accoglienza del prossimo, di rispetto per la dignità e sacralità della vita, di salvaguardia dei valori che la promuovono, come la famiglia, la società e lo stato.

Quanti Avventi sono trascorsi e quanti Natali abbiamo festeggiato… Eppure il ritmo dell’anno liturgico ha una risonanza nuova in rapporto all’esperienza che viviamo. Per questo la saggezza della Chiesa lo presenta secondo una pedagogia che ci consente di coglierne un significato nuovo, di segnare un’altra tappa nel nostro cammino di maturazione. Così, un presepio sempre uguale per il distratto, è un presepio diverso per l’uomo di fede che lo costruisce, come diverso è il Natale che viene.

Nell’ultimo presepio che mi ha fatto pregare, oltre le travi che racchiudevano la natività, si intravvedevano le casette di Gerusalemme con le sue luci, e le donne sulla porta di casa. Mi sembrava di essere lì per cogliere il mistero di quel Dio che “si è fatto uomo”… Il sogno che corre nella mente è quello dell’uomo che allora si riconcilia con l’uomo, ma forse è ancora troppo presto…

inedito 1984 (Claudio Sottocornola, da “Il pane e i pesci”, vol. II – Scritti cristiani per la gente di Colognola, )

Quintessenza, dicembre 2010-gennaio/febbraio 2011

Claudio Sottocornola

I commenti sono chiusi.