Davide Donzelli

“Il giardino di mia madre”

Si dice che un’immagine valga più di mille parole, ma in effetti, un’immagine è molto più di questo: è un insieme di colori, forme, prospettive ed emozioni. Perché emozioni? Semplicemente perché ogni fotografia è evocativa, e suscita in ognuno stati d’animo diversi, che variano dall’indifferenza a quei sentimenti che  l’artista voleva trasmettere e che non vengono mai interpretati in due modi identici.

“Il giardino di mia madre e altri luoghi” si presenta come una serie di fotografie accompagnate da un’opportuna melodia musicale: l’impressione che è invece rimasta dopo aver riflettuto sul suo contenuto espressivo è quella di una melodia di fotografie accompagnate da un’opportuna serie di note musicali. Lo spettatore viene proiettato immediatamente nella natura, ma il suo vedere è filtrato da un velo che si dissolve e si rigenera man mano che gli alberi, i fiori e i colori stessi iniziano a prendere forma. Tuttavia in questo locus amoenus convivono meraviglie naturali e insipidi costrutti in calcestruzzo, che dai confini del verde si ergono sotto forma di mura, per poi tornare ad arrancare a terra e fondersi con il catrame delle strade. Come cambia il soggetto dell’obiettivo, così muta l’andare della melodia, che da un ritmo basato su corte scale di note, accelera mentre di colpo si ritorna all’interno delle aiuole; ma stavolta non si tratta di semplici fiori: come volte a simboleggiare una vera e propria rinascita nel passare da ciò che è opera dell’uomo a ciò che invece è parte della natura, ecco delle primule colorate, viste da diverse angolazioni, e sempre presentate attraverso l’effetto della dissolvenza delle immagini.

Così accade per le ortensie, i fiori di malva e l’edera; ecco nuovamente i muri della proprietà, i confini del giardino, “pattugliati” da una pianta dai fiori tanto belli quanto velenose le sue foglie; forse per indicare che ove l’uomo ha seminato il cemento, ha sparso nient’altro che veleno, a danno dell’armonia naturale. Se da una parte i fiori d’oleandro sbocciano in un rosso intenso e man mano calano in un calmo rosa  vermiglio, dall’altra la musica accompagna questo decrescere rallentando il ritmo e affievolendosi.         Poi la musica riprende, addentrandosi nel cuore del locus e mostrando allo spettatore un sincretismo di colori molto accesi, che passano dal rosso dei rododendri e delle rose ad alcuni fiori di un giallo denso, illuminati dalla luce del sole. Ma infine, ecco che il panorama cambia drasticamente e per l’ultima volta, orientandosi verso il crepuscolo, deturpato però dalla sagoma di un grattacielo ancora in costruzione. Poi la luna.

E con la luna si passa a  “la neve”      che ricopre le strade, e poi le medesime piante, i medesimi muri, ma dai cancelli l’attenzione ritorna verso le piante più interne, non trascurando però la fatale eleganza degli oleandri: anche se sul giardino il bianco si è sostituito alle primule e ai fiori più belli, rimane sempre il ricordo di come le stesse piante erano la stagione passata. Il tema preponderante sembra essere il contrasto tra la natura e il creato dell’uomo, presente anche nelle sezioni successive, come “ritorno al mare”, in cui le spiagge e le linee armoniche dei pini marittimi condividono il primo piano con le auto e gli edifici rigidi di cemento; “Sud”, dove ancora il mare è il protagonista; mentre in “archeo” l’alternanza con l’arido cementizio è retta dal grano, dalle immagini di una rocca, di una vecchia scalinata, tutte immagini che rimandano ad una riflessione sul senso del tempo.

Perché è il tempo il secondo tema che si percepisce dai fotogrammi: In “back to the 70’s in the USA” e nelle brevi “isole”, “paradise lost” e “Rome 2007” le persone e il tempo sono la cornice di ogni fotografia, di come alcune cose cambiano mentre altre rimangono immutate, come i luoghi più significativi per gli Stati Uniti o semplicemente di come un venditore ambulante rimanga nello stesso luogo per anni, senza cambiare… Quando invece     la musica cambia, e accompagnata dal medesimo canto d’uccellini, muta in una melodia simile ad un carillon, in contrasto con il “mondo del cemento” su cui le immagini si focalizzano, l’una dopo l’altra.

L’opera si conclude con “tramonti a Nord-Est”, in cui le fotografie hanno una vita maggiore e si lasciano agli occhi dello spettatore per una durata più lunga delle altre; e dopo il bagnasciuga e la chiesa tutto finisce con l’immagine di una persona cara all’autore tra il mare e la sabbia.   

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