Oniricamente penso l’essere

di Claudio Sottocornola

Mi sono sempre posto il problema della autenticità. Che è poi il problema
ermeneutico della verità.
Sembrerebbe che la verità sia più rintracciabile in contesti spontanei, affettivi,
selezionati e/o circoscritti. Lasciar fuori il diverso, l’altro, lo straniero, il
nemico, l’infedele, il “male”.
E’ stato il fascino dei monoteismi nella loro fase integralista, o delle ideologie
nelle loro semplificazioni dualistiche, o l’esaltazione del “privato” che rivendica
una priorità “criminale” rispetto ad ogni atto di attenzione e di amore che non
sia istituzionalmente sancito, e quindi di un diritto che dimentica la pluralità
della condizione umana, dei modelli antropologici e sociali.
“Vera morale è infischiarsene della morale”, diceva Pascal, e apriva le porte alla
genialità in morale o, anche, alla santità.
Sono reduce dalla visione di “Centochiodi”, il film di Ermanno Olmi che evoca
una interpretazione del Cristo di una suggestione assoluta, e che si apre alla
proposta di una conversione fra la gente semplice che abita le rive del Po,
pensionati e uomini di campagna, che raggiunge il suo acme nella dissoluzione
del Cristo storico in tutti i “poveri cristi” che compongono l’umanità che abita il
fiume.
Che è un po’, parametrato ai giorni nostri, l’esperienza di Francesco che, otto
secoli fa, in Assisi, ripudiò l’eredità paterna e una tranquilla vita borghese a
favore di una vita fra poveri ed emarginati.
Ritagliarsi uno spazio che, grazie alla semplificazione di strutture e alla
tracimazione del troppo, alla liberazione delle scorie, produca l’essenzialità. E’
il bagaglio da lasciare, il peso da gettare, forse la torbida commistione da
eludere.
Ed è Francesco, sia pure in seconda battuta e in modo indiretto – attraverso
l’icona di Cimabue regalatami da mia sorella dopo un viaggio ad Assisi – ad
avere accompagnato nell’ ’81 la mia ricerca materializzatasi nei 40 collages
della serie “Eighties/80′s (laudes creaturarum ’81)”.
Che a ben guardare contiene il senso di un’espansione o rinascita che vuol
richiamare nel titolo proprio il cantico di francescana origine, perché
analogamente persegue, o meglio esprime, una semplificazione, evocata dalla
leggerezza di uomini sospesi nell’aria o bimbi sull’acqua o Madonne e Natività,
ma al contempo include tutti i riferimenti a quegli anni ’80 allora appena
iniziati, che danno il titolo alla serie, e pertanto non elude ma anzi,
ludicamente e come in un mantra o in una preghiera litanica, propone tutto il
caleidoscopico mondo dei simboli e del linguaggio del decennio, e per di più
mai sfrondato dei sedimenti e delle frequenze che provengono da lontani anni
luce (il Rinascimento, il Medioevo, l’Antichità Classica, l”800 fino alla
Contemporaneità…).
Nei collages si avvicendano quindi, si affastellano, si contraggono e si
compongono tutti i feticci dell’arte e della moda, dell’antropologia anni ’80 e
della pubblicità relativa, tutte le suggestioni della natura e della cultura in
quel decennio, per celebrare, sì celebrare, un cantico delle creature, che
restituisca al profano tutta la sacralità che sprigiona, una volta che il cuore,
purificato, non costituisca un diaframma ad escludere, delimitare uno spazio
impuro da uno “puro”, un dentro di “salvati” da un fuori di “senza faccia” e di
“insignificanti”, o di “falsi idoli”.
Ed è il notturno allora, al di là della solarità apparente, la negazione e talvolta,
come vuole un’estetica contemporanea, il brutto, l’ambiguo o l’assente, a
sprigionare la “rivelazione”, a evocare “l’essere che è e non può non essere”, e
che è allora inclusivo, semplicemente di ogni “dettaglio” e contemporaneità,
anche ambivalente, ma la presa – e chi oserebbe dichiarare più di Francesco o
Gesù … – è temporanea, ogni trasfigurazione si spegne, bisogna lasciare la
presa… e la memoria, il compito quotidiano, gli affetti, gli amici, i progetti…
riportano ad un universo che è spesso apparentemente più angusto, contratto,
indeterminato. E pure il messaggio è ricevuto. Heideggerianamente
abbracciamo il nostro spazio-tempo come possiamo, attendiamo la morte,
talvolta non ne abbiamo più paura, perché intuiamo che l’essere è come una
bella donna, che si dà negandosi.
E le luci della notte sono lì a dircelo.
26 aprile 2007

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